Di Assaf Gavron, La Stampa
La lettera aperta di scrittori e artisti ebrei americani, pubblicata la settimana scorsa, si basa su un’affermazione giusta, un vero punto di partenza, ma poi contraddice il suo stesso proposito con una lunga, confusa e stiracchiata serie di osservazioni e di conclusioni contro-intuitive che risulta alquanto insoddisfacente, quantomeno per me, scrittore ebreo come loro. Il presupposto implicito corretto da cui partono è che le critiche a Israele non possono e non devono essere equiparate all’antisemitismo. Hanno ragione, si tratta di un’affermazione ridicola. Se fosse vera, sarei nei guai. Critico Israele da quando mi ricordo. Non mancano mai i motivi per criticare Israele. Amo farlo, tutte le volte che posso e ogni volta che posso. Sono abbastanza sicuro di aver criticato Israele più volte di tutti coloro che hanno firmato quella lettera aperta, l’ho fatto ogni giorno, probabilmente, in pubblico e in privato, in conferenze, lezioni, letture, articoli di giornale e di opinione, miei libri e conversazioni. Non penso, però, di essere un antisemita. Non odio il popolo ebraico per motivi di razza, religione o etnia. Se così fosse, odierei la maggior parte delle persone che frequento: tutta la mia famiglia, la maggior parte dei miei amici, moltissimi colleghi. Sarebbe un po’ faticoso.
Da questo punto di vista, quindi, sono esattamente sulla stessa lunghezza d’onda degli scrittori che hanno pubblicata la lettera. Tuttavia, avrebbero dovuto fermarsi dopo sei parole: «Criticare Israele non è certo antisemitismo». Uno degli esercizi che ogni tanto faccio svolgere ai miei studenti durante i miei laboratori di scrittura creativa è scrivere una storia in sei parole. Alcune sono straordinarie. Con poco riescono a raccontare moltissimo. Una delle più famose, attribuita a Ernest Hemingway (senza che sia stato dimostrato che è sua) è la seguente: «Vendesi scarpe da bambino mai indossate».
Purtroppo, la lettera degli scrittori ebrei è lunga 1154 parole, oltretutto scritte male, il che è un peccato, se si considera che gli autori sono presunti scrittori. Dopo l’inizio, che reputo giusto, a mano a mano che andavo avanti a leggere mi è cresciuta dentro una profonda sensazione di disagio. Mi è sembrato che prima abbiano scagliato la freccia e soltanto dopo abbiano disegnato intorno a essa il bersaglio che però, poco alla volta, si è fatto sfocato, confuso, sfasato. Se quegli scrittori fossero miei studenti, il primo insegnamento che trasmetterei loro è «siate sintetici». Attenetevi a sei parole. Se proprio è necessario, potete arrivare a cinquanta, massimo cento, non a mille-cento-cinquantaquattro. Scrivere bene significa essere concisi.
l secondo insegnamento che impartirei loro è: «Siate chiari e andate al punto». Dopo il messaggio iniziale sono stati confusi. Per esempio, hanno instaurato un collegamento tra l’idea che criticare Israele sia antisemita e l’affermazione che «palestinesi, arabi e musulmani sono intrinsecamente sospetti». Che cosa? Chi l’ha detto? Dove? L’accusa di antisemitismo serve davvero a chiudere la bocca, ma di solito si tratta di quella dei governi, degli intellettuali e dei giornalisti occidentali, non degli arabi. E questo non ha nulla a che vedere con i sospetti.
Nella loro lettera, scrivono che «classificare tutte le critiche a Israele come antisemitismo», ma… chi l’ha detto? Chi ne ha parlato? A minare la loro integrità è questo tipo di generalizzazione, di affermazione generalizzante. Ne risulta un mix intellettuale di idee confuse e abbozzate che distoglie i lettori dal loro punto. Scrivere bene significa essere chiari e andare al punto.
Il terzo insegnamento è il più fondamentale di tutti. Scrivere bene significa scrivere in modo empatico. Uno scrittore tradisce la sua professione, se non è in grado di scrivere con empatia. Tradisce i suoi lettori, se non ha la capacità di esprimere realtà complesse e multi-sfaccettate, se non sa tenersi alla larga da una visione del mondo monolitica. È qui che falliscono i nostri amici scrittori ebrei. Scrivono: «Noi condanniamo i recenti attacchi ai civili israeliani e palestinesi», ma poi proseguono parlando soltanto di una parte delle aggressioni. Lo fanno parlando della parte in causa che non ha preso di mira e massacrato di proposito e intenzionalmente i civili, inclusi neonati, bambini, donne e uomini anziani.
Un’altra espressione che spicca in questa lettera è «allucinazione violenta», in riferimento alle paure degli ebrei dopo gli attacchi del 7 ottobre. Questa espressione disconosce e denigra in modo insensibile le paure e le preoccupazioni innescate negli ebrei e negli israeliani dagli atroci attacchi.
«Allucinazione»? Riprovateci. L’esempio clou della cecità e della mancanza assoluta di empatia lo troviamo dove gli scrittori auspicano una soluzione per far «tornare sani e salvi gli ostaggi tenuti a Gaza e i prigionieri palestinesi in Israele». A questo punto, lo spasso sottile che provavo per le parole e i ragionamenti confusi si è trasformato in collera. È del tutto fuori luogo mettere sullo stesso piano centinaia di bambini e di anziani civili rapiti con la violenza dalle loro case e i detenuti delle carceri di massima sicurezza.
Detesto l’allorismo e non cerco l’equilibrismo. Tutti hanno il diritto di esprimere un’opinione, e la risposta non dovrebbe mai essere: «Sì, ma allora che dire di…».
In ogni caso, la tempistica di questa lettera non è trascurabile. Sono i primi ad aver scritto: «Nella scia di così tanta violenza», quindi, la tempistica è importante. Se si decide di pubblicare una lettera proprio in questo momento, non si può ignorare in che modo è iniziata «così tanta violenza». Non si può escludere l’evento che le ha dato il via, specialmente quando si tratta di un evento di una portata mai vista ed eseguita in quel determinato modo.
Duemila scrittori e artisti ebrei: mi chiedo quanti di loro abbiano letto integralmente il testo della lettera, quanti si siano sentiti leggere soltanto le prime parole, quanti di loro volessero soltanto essere inclusi tra i firmatari – fallendo miseramente nelle mie lezioni, a causa della sovrabbondanza di parole, dello stile, della chiarezza di quello che hanno scritto senza presentare una realtà complessa e multi-sfaccettata, con pregiudizi di parte e senza empatia. La prossima volta dovrebbero impegnarsi di più.
Traduzione di Anna Bissanti
Nell’immagine: Assaf Gavron