La ‘lingua nera’ di Prisca Agustoni
Note di lettura per la raccolta poetica “Verso la ruggine” con cui l’autrice ha vinto il Premio svizzero di letteratura
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Note di lettura per la raccolta poetica “Verso la ruggine” con cui l’autrice ha vinto il Premio svizzero di letteratura
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Note di lettura per la raccolta poetica “Verso la ruggine” con cui l’autrice ha vinto il Premio svizzero di letteratura
Libro forte, per più di un aspetto affascinante e inquietante, Verso la ruggine trae spunto da una catastrofe ambientale, o per essere più precisi da un eco-crimine perpetrato alcuni anni or sono, e seguito a ruota da altri avvenimenti nefasti, che riguardano il Brasile ma che per metonimia valgono per tutti noi. Ecco rapidamente il rosario cupo di date e fatti: nel novembre 2015 crolla una diga nello stato di Minas Gerais, e il contenuto tossico di un gigantesco bacino (62 milioni di metri cubi di acque acide di provenienza mineraria e di fanghi velenosi) si riversa nel pricipale fiume della regione il Rio Doce, devastandolo. Ci sono morti, naturalmente, ma soprattutto ci sono conseguenze forse irreversibili sull’ambiente che circonda il fiume e sulla popolazione indigena dei Krenak, che vivono sulle sue rive e che dal fiume traggono sostentamento. Ad oggi impunite le multinazionali responsabili della catastrofe, come da trito copione; poco dopo, altri crolli e colate di fango provocano un numero ancora più alto di morti. Tre anni più tardi, un incendio spaventoso e simbolico distrugge buona parte del Museo nazionale del Brasile, a Rio de Janeiro; preludendo ad altri incendi, questa volta amazzonici, che devasteranno le grandi foreste nel 2019, provocando colonne di fumo che oscureranno il cielo di Saõ Paolo. Intanto, nel gennaio del 2019, si è insediato al potere Jair Bolsonaro, rappresentante dell’ultradestra brasiliana e fieramente avverso ad ogni intervento a tutela dell’ambiente, delle minoranze e dei loro diritti.
Eco-poetrry, dunque? L’etichetta non ha per ora avuto grande fortuna in Italia, dove il dibattitto sull’argomento è stato aperto da non molti anni e stenta un poco a decollare (mentre è da tempo fiorente nel mondo anglosassone) ; pure, forse a Prisca Agustoni non dispiacerebbe poi troppo sentirsi annoverata tra gli autori attenti a questo orizzonte; a patto di considerare l’idea di un’eco-poesia e di un’eco-critica non come una limitazione o un sottogenere, ma come un’apertura, una rinnovata attenzione al rapporto profondo e minacciato che lega tutte le forme di vita, e che appunto la parola poetica può sperare di saper pronunciare, «poeticamente abitando il mondo», secondo il celebre verso di Hölderlin.
Ma ciò che davvero conta è il modo particolare con cui Prisca Agustoni si accosta alla materia del suo libro; materia che ha potuto osservare da vicino, quasi dal vivo, visto che lei stessa risiede nello stato di Minas Gerais, e ha dunque potuto visitare le regioni più colpite dalla catastrofe, parlare con i superstiti, lasciarsi insomma coinvolgere ben oltre la compassione di facciata. Da questa non superficiale condivisione nasce il primo elemento che orienta la scrittura: una forma di pietas nei confronti del popolo Kerak, con il conseguente tentativo di dare voce a chi voce non ha, di parlare, per quanto possibile, a nome di: non una semplice proiezione di buoni sentimenti, o peggio l’appropriazione del dolore altrui da parte del poeta, osservatore al sicuro; piuttosto, una compenetrazione profonda, che consente di far parlare gli altri a partire dalla propria soggettiva emotività, e che, per converso, accoglie il vissuto terribile degli altri (esseri umani, animali, acque, alberi) dentro di sé, dolorosamente, rileggendo attraverso di loro anche la propria storia individuale. E appunto questo avviene, sotto e dietro i versi, sia nella prima parte dell’opera, che offre una forma di accorato compianto generale; sia nella seconda, quando la voce è affidata ai sopravvissuti, esili figure umane sconvolte. Dentro di sé, nella propria esperienza, Prisca deve aver trovato, non senza dolore, il suo Rio Doce, il Watu dei Krenak ora distrutto: solo a questo prezzo ha potuto parlare.
Il libro si muove su di un confine fragile e già compromesso: quella frontiera tra la ruggine e il ferro che è suggerita sin dall’inizio. Ma se la ruggine indicherà evidentemente lo sfaldamento, l’usura, lo smangiarsi di ogni certezza, non è detto che il ferro possa costituirsi come polarità positiva e ora sconfitta. Si direbbe piuttosto che i due termini disegnino una morsa atroce, a cui è difficile sfuggire: il ferro che ferisce e che schiaccia (e il ferro è uno dei minerali maggiormente estratto nelle miniere di Minas Gerais) e la ruggine-devastazione che lo stesso ferro induce. In mezzo, tra ruggine e ferro, ma già spostate ormai verso la ruggine, stremate sotto la gragnuola di «bombe senza guerra» e dall’avanzare della «epidemia di deserti», stanno le figure e le voci inermi che popolano questo libro, come un tempo popolavano le rive del fiume; voci annichilite, umiliate, e che ciononostante «vegliano perché la parola sia / lumino ancora che porti pace», provano a «intonare il canto che invoca / l’umido centro dell’uomo».
I versi ora citati suggeriscono però anche un altro elemento singolare e importante di questo libro, che ne costituisce forse la cifra più segreta: il costante, sommesso slittamento delle immagini reali, geografiche e umane, su di un piano linguistico, come se ciò che avviene nel paesaggio si depositasse sopra e dentro la lingua, trasformandola e incupendola, come ci ha insegnato una volta per tutte Andrea Zanzotto. Molto frequenti sono in effetti i riferimenti al linguaggio, alla metamorfosi del fiume in lingua: «una lingua tossica che lecca la terra», «una storia che pianta radici in bocca», «il paradiso sono questi detriti / da battazzare / con nuovi nomi / arsenico, ferro, mercurio, piombo», «palude delle parole conficcate / come lance / spille ritte in una bocca / nera di spavento», «una devastazione senza radici / nella lingua o nella falda acquifera», e così via. In un testo di grande intensità, uno dei pochi volto, sia pure amaramente, verso il futuro, si trova infine l’opposizione ultima, più estrema: quella tra «l’alfabeto della resina e del lattice», che un giorno consentirà forse ai figli e ai nipoti di rileggere il passato, e la «lingua nera» del presente devastato da una «sintassi straniera»:
i nostri figli
conteranno un giorno gli anelli del tronco
le pagine del libro mai scritto
per scoprirne le età
e la sintassi straniera;
con sete di giustizia
indagheranno
la vita perpetua del legno
dopo lo squarcio.
L’alfabeto della resina e del lattice.
I nostri nipoti costruiranno da zero
il villaggio attorno agli argini del fiume:
sarà necessario tornare al taglio
alla diga crollata, al machete
alla lingua nera
alla biopsia dell’acqua e del cielo
e pazientare
Piccola Macondo brasiliana, la regione travolta e tradita rappresentata in questo libro tanto vero quanto simbolico entra nel nostro catalogo degli orrori e delle disperazioni, perché «il giorno che muove al massacro» (il verso è di Sereni, e lo ritroviamo felicemente in una delle poesie di Prisca) è anche il nostro, e ci vede contemporaneamente vittime e colpevoli, devastati e devastatori. Ho scritto a Prisca Agustoni, qualche tempo fa, dopo aver letto la raccolta, che non mi capita spesso di essere colpito e turbato da un nuovo libro di poesia: ne ho letti troppi, forse. Eppure Verso la ruggine ha prodotto su di me proprio questo effetto. Con una lingua essenziale ma niente affatto semplice, molto attenta a distillare dentro di sé una musica di profondità, con immagini lievi e potenti, questo libro raggiunge un non facile risultato: parla di una vicenda lontana da noi, senza per questo risultare né esotico né antropologico; ci dice che Watu scorre qui, nei nostri giorni, fra di noi, e che il fiume, il nostro fiume, non può più chiamarsi «Rio doce», perché ogni dolcezza è tramutata in fiele.
Presentazione di Fabio Pusterla alla raccolta di Prisca Agustoni Verso la ruggine, Interlinea, 2022 (pp. 5-8), per gentile concessione dell’autore
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