“Sono figlia della Shoah, ma non c’è giustizia in questa guerra”
Deborah Feldman, autrice della serie cult “Unorthodox”: «Mia nonna fu salvata dai lager, i civili vanno protetti»
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Deborah Feldman, autrice della serie cult “Unorthodox”: «Mia nonna fu salvata dai lager, i civili vanno protetti»
Di Uski Audino, La Stampa
BERLINO. Nota nel mondo per il suo debutto letterario autobiografico, Unorthodox, poi diventata serie di successo, Deborah Feldman vive da un decennio a Berlino dopo essere cresciuta in una comunità ebraica hassidica di Brooklyn.
Lei non si definisce pacifista ma è contraria alla guerra in corso in Israele. Ci spiega?
«Io sono in vita solo perché qualcuno è entrato in guerra per liberare mia nonna da Bergen Belsen e so che alcune volte è inevitabile combattere il male. Per esempio ero e resto a favore della guerra in Ucraina. Il problema in Israele è che parliamo di un conflitto eterno, dove non si ha come obiettivo la fine del conflitto, ma il fine è il mantenimento di uno status quo di conflitto. Non posso essere dalla parte di una guerra che non ha un obiettivo, ma che si auto giustifica».
Ha detto che gli ostaggi in Israele «sono utili alla giustificazione della violenza». Che cosa intende?
«Le famiglie delle vittime in Israele hanno chiesto di non fare la guerra, di non volere vendetta. Non è questa la soluzione che porterà indietro i nostri cari, ma produrrà solo una spirale di violenza. Queste persone non vengono ascoltate dal governo, perché non è di loro che si tratta in realtà. Non sono i loro sentimenti che interessano. Si tratta di usare le immagini di queste vittime per creare un’atmosfera di rabbia in modo da mantenere il sostegno alla guerra. Ci sono familiari che dicono: prima riprendiamoci gli ostaggi e poi facciamo la guerra ad Hamas. Ma non vengono ascoltati».
Perché non liberare gli ostaggi subito?
«Le persone finite nelle mani di Hamas sono ebrei secolarizzati, in parte attivisti per la pace. Se venissero liberati direbbero ciò che pensano ad alta voce e potrebbe avere un’influenza sul Paese. È più facile fare la guerra quando le vittime rimangono mute e si può parlare in loro nome. Bibi Netanyahu può salvarsi soltanto in un modo: facendo la guerra. Tutti sanno che è finito, ma finché c’è la guerra lui rimane al suo posto. In caso di necessità, la sicurezza diventa più importante della rappresentatività. Se gli ostaggi venissero liberati, si aprirebbe un discorso diverso».
Lei sostiene che bisogna parlare di “contesto”, intende la stessa cosa di Guterres?
«No, dico un’altra cosa. O tutti riconosciamo che non c’è nessuna giustificazione per la violenza contro civili innocenti. Oppure, in ogni occasione, dobbiamo parlare dell’influenza del contesto che ha scatenato la violenza. Il problema è che, almeno in Germania, si vuole danzare a due matrimoni nello stesso tempo. Si vuole rivendicare che non c’è alcuna giustificazione per la violenza contro civili israeliani innocenti, cosa sulla quale concordo. Non c’è giustificazione possibile. Ma allo stesso tempo si argomenta che c’è un contesto che giustifica la violenza esercitata sui palestinesi innocenti. Non funziona come argomentazione. Lo sappiamo tutti. Ma facciamo “come se” funzionasse. E questo è pericoloso».
Per chi e perché è una contraddizione pericolosa?
«Perché porta a una rottura della fiducia su cui si fonda la nostra società. Le persone rischiano di allontanarsi dal sistema democratico, che dice di riferirsi a valori che non fa propri o lo fa in maniera selettiva. Questo mi spaventa perché porta con sé i germi di un abbandono della civiltà (Zivilizationsbruch)».
Che cosa le ha trasmesso sua nonna sopravvissuta alla Shoah, qual insegnamento è utile oggi?
«Mia nonna mi ha trasmesso saggezza e paure. C’erano due opzioni dopo la Shoah diceva: o non credere più in Dio, oppure credere a un Dio così arrabbiato che bisogna passare tutta la vita a riflettere sul suo messaggio. Ho letto molti racconti dei sopravvissuti, compreso Primo Levi. E l’idea che ne ho tratto è che l’unico modo di evitare questa terribile disumanizzazione è convenire sul fatto che i diritti di tutti sono da proteggere in modo uguale. Solo così si può fondare una società che non riproduca l’Olocausto. È grave quando si afferma che solo i diritti di alcuni devono essere salvaguardati».
Nell’immagine: Deborah Feldman
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