Di Putin fa paura anche la debolezza
Un’analisi sull’evidente fallimento della Russia in Ucraina, e sulle possibili reazioni di uno zar comunque in difficoltà e dipendente dalla Cina
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Un’analisi sull’evidente fallimento della Russia in Ucraina, e sulle possibili reazioni di uno zar comunque in difficoltà e dipendente dalla Cina
• – Aldo Sofia
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• – Redazione
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• – Aldo Sofia
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• – Paolo Favilli
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Come mai tanta acredine contro la non violenza?
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• – Franco Cavani
In un momento storico drammatico come quello che stiamo vivendo, le parole assumono un’importanza pari forse solo a certi specifici silenzi, come quello del Papa
• – Enrico Lombardi
Un’analisi sull’evidente fallimento della Russia in Ucraina, e sulle possibili reazioni di uno zar comunque in difficoltà e dipendente dalla Cina
Affermazioni di Dario Fabbri, analista geopolitico, fra i responsabili della rivista ‘Limes’ di Lucio Caracciolo, il direttore che non ha mai nascosto dubbi, scetticismi e contrarietà in merito alla consegna di armi occidentali e di addestramento americano alla resistenza ucraina L’analisi di Fabbri, apparsa la vigilia di Pasqua sul supplemento ‘Scenari’ del quotidiano ‘Domani’, è dunque di particolare interesse, anche se evita di ricacciarsi nel dibattito su quanto la reazione dell’esercito di Zelensky si debba al rifornimento di armi difensive da parte di Stati Uniti ed Europa. Analisi che porta un titolo schietto, senza equivoci, che si vuole profetico. Eccolo: ”Comunque vada, il fallimento della Russia è già evidente”.
Continua l’autore: “In definitiva tale sconclusionata campagna avrà un effetto molto negativo sulla capacità di Mosca di imporre la propria visione, di sconsigliare un’eventuale azione contro di sé. Ormai aggrappata soltanto all’idea di imprevedibilità che la riguarda, abbastanza per sopravvivere, non per scongiurare di essere diretta da una Cina famelica”. Altra indispensabile passaggio per capire la catena di errori commessi dal ‘generale Vladimir’ : naufragata la prima fase dell’invasione (rapida caduta di Kiev, istaurazione di un governo vassallo), ”Mosca ha provato a cingere d’assedio le altre principali città d’Ucraina, nella speranza di fiaccare la resistenza e la popolazione, per conquistare i centri nevralgici, e tirare verso sé ampie fette della popolazione. Prima di scoprire, con sommo stupore, che seppure russofoni gli abitanti non avevano alcuna intenzione di arrendersi, di fondersi con gli occupanti. Allora il Cremlino ha compreso di mancare degli effettivi di fanteria per conquistare una nazione di oltre quaranta milioni di abitanti, ampiamente ostile a ovest del (fiume) Dnepr”.
Sperava, il neo zar, di sopperire con i terribili ceceni di Kadyrov – esperti di guerriglia urbana, e corresponsabili della feroce repressione (da 50 m ila a 100 mila morti tra i civili) con cui ottennero da Putin di rimanere nella Federazione russa marciando su una capitale Grozny ridotta letteralmente in macerie; oppure con i turcofoni della Siberia, modello di quella gioventù in cerca di ruolo e rivincita sociale perché più isolata e povera e marginale della Madre Russia; o ancora con le formazioni siriane di Assad salvato dai bombardamenti russi a tappeto sotto la guida del generale Dvornikov, ‘il macellaio della Siria’, che Putin ha ripescato mettendolo alla guida dell’ ‘operazione militare speciale’. Nemmeno questo è finora bastato, convincendo il Cremlino a ripiegare sull’obbiettivo minimo: 1. la conquista della maggior parte del Donbass (in realtà già sotto ‘protettorato russo’ con buona e cinica pace degli occidentali), cassaforte ucraina delle ricchezze minerarie ed industriali del paese, 2. il controllo a sud lungo coste dei due mari (Azov e Nero) che garantiscono il deflusso di esportazioni vitali, anche di grano (Russia e Ucraina insieme, ne garantiscono quasi il 25 per cento a livello mondiale). Traguardi ancora da raggiungere (e l’affondamento dell’ammiraglia Moskva nel Mar Nero è un’ulteriore mortificazione) per poi essere eventualmente esibiti come scalpo trionfante, soprattutto a un’opinione pubblica russa imbevuta di nazional-imperialismo, pur senza escludere la prospettiva di un brusco, amaro e frustrante risveglio.
Conclusione di Diego Fabbri: “È questa la principale sconfitta per il Cremlino. Ogni impero vive innanzitutto di credibilità, della propria immagine riconosciuta, specie la Russia da molti decenni mancante di mezzi per sostenere le velleitarie ambizioni di potenza. Negli ultimi anni era riuscita a raccontarsi come un soggetto eccezionalmente efficace e minaccioso, a fronte di un relativo dispendio di energie, attraverso campagne discretamente semplici come tutte quelle condotte in Siria e in Libia. Le disastrose operazioni attuate in Ucraina squarciano inevitabilmente tale propaganda, la rendono non più percorribile…Più concretamente Putin sa che nel prossimo futuro la paura esercitata sugli altri, di cui vive la sua nazione, andrà inevitabilmente scadendo, sommersa dalle immagini di mezzi antiquati impantanati nel fango ucraino, dalle scene di soldati russi spaesati, tipiche di una media potenza militare e non certo di un egemone indiscusso. Danno ingente, da cui sarà complesso riprendersi nell’immediato, fallimento innegabile della guerra. Poco cambierà pure se Mosca imponesse la neutralità a Kiev – giacché questa si tradurrà comunque in una non dichiarata appartenenza al fronte occidentale. Né se le impedisse di aderire alla NATO – nessun membro dell’Alleanza Atlantica ha mai concretamente sognato di accogliere il paese di Zelensky. Né se l’armata prendesse l’intero Donbass, regione da tempo controllata (dai russi) da remoto, come dimostrato nel 2018 dal blocco imposto alle navi ucraine nel mare d’Azov. Niente potrà mascherare le nefaste sofferenze provocate dalla disinvoltura del Cremlino, tanto ingenti da trasformare la Russia in un socio di minoranza dell’impero cinese. Destino umiliante per chi tempo fa rifiutò di assumere il medesimo ruolo nello schema americano”.
A questo punto dove sta il pericolo? Non solo nel protrarsi del conflitto, con altre numerose vittime e massicce distruzioni. Ma anche nella eventualità che il pericolo sta proprio e paradossalmente … nella debolezza di Putin. Se la lettura di Fabbri e altri analisti è corretta, in una disperata irrazionale risposta dello sconfitto per uscire dall’angolo in cui ha schiacciato sé stesso e la sua nazione. In molte biografie autorizzate, il presidente russo racconta quella che ritiene essere stata una ‘lezione di vita’. Nel palazzone di San Pietroburgo in cui viveva da ragazzo, in un misero monolocale, il suo divertimento preferito era la caccia ai topi. Finché non incontrò quello che definisce ‘il Topo alfa’. Che vistosi senza scampo, decise di contrattaccare. Un insegnamento indimenticabile, ha sempre affermato Putin. Che potrebbe concretamente tentarlo anche oggi.
Per ribaltare la situazione. Per non rimanere schiacciato dai suoi errori. Dalla Storia. E dalla mancata promessa di una Russia laboratorio di un mondo nuovo, anti-liberale, anti-democratico, conservatore, imperiale e basato sui valori ‘religiosi’. Il ‘Putin Alfa’ potrebbe reagire con l’arma più volte evocata, che può rovesciare l’immagine dell’impotenza: quella nucleare, anche se nella versione ‘tattica’, devastante ma destinata a un obiettivo e a un perimetro limitati. Provocando quale tipo di replica? Inizio di una eventuale, possibile, imprevedibile escalation? Ecco perché temere un Putin debole. Con o senza guerra. Peggio ancora, se a Ovest dovesse spuntare qualche ‘dottor Stranamore’ convinto che nella risposta occidentale, con le stesse armi, dovesse prevalere chi pensa che sarebbe il momento buono per un definitivo regolamento dei conti col putinismo. Meglio allora pensare fin d’ora in che modo eventualmente maneggiare un materiale così esplosivo e devastante: come, in qualche modo, imitare Bismark, che cooptò gli sconfitti, e non Versailles, che li umiliò: come recuperare la Russia (con o senza Putin) e non perderla in uno scenario post-imperiale che potrebbe anche diventare catastrofico
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