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Redazione
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Dove porta il Grande Dubbio
• 26 Luglio 2023 – Redazione

Di Ezio Mauro, La Repubblica

La chiacchiera sul clima è probabilmente la più antica del mondo, così universale e comune da rappresentare — in teoria — l’occasione virtuosa della politica: una zona franca, priva di ideologismi, senza carichi pendenti della storia, divisioni e contrapposizioni. La crisi climatica è infatti un’esperienza sensoriale immediata e banale, in cui ognuno diventa metro di se stesso e giudice del quadro generale, e il concorso degli esperti aggiunge spiegazioni e previsioni, dati, confronti, variabili, costruendo un contesto attorno a ciò che l’individuo percepisce da solo. Si può discutere sul livello di gravità della crisi, naturalmente, sull’opportunità e la convenienza delle diverse misure di contrasto, sull’integralismo che trasforma l’ambientalismo in una nuova fede, annullando la politica. Ma l’emergenza climatica non è una visione di parte, a cui si chiede di aderire, bensì una condizione oggettiva, che non si può ignorare: salvo uscire senza l’ombrello sotto un nubifragio, per negare ad ogni costo che stia piovendo. E invece proprio qui, sulla questione ambientale, sta prendendo forma l’ultima gigantesca frattura del Paese, una spaccatura politica, sociale, economica e culturale, che nei prossimi mesi trasformerà il triangolo tra la natura, il clima e gli esseri viventi in un campo di battaglia, con lampi di regressione antimoderna rispetto agli obblighi della generazione dei padri rispetto al futuro dei figli. 

È bastato il voto del parlamento europeo sulla Nature Restoration Law (che punta al recupero entro il 2030 del 20 per cento delle aree terrestri e marine degradate) per far capire a tutti che il Green Deal con il suo obiettivo di raggiungere la neutralità climatica per il 2050 sta diventando il nuovo totem dello scetticismo universale, raccogliendo contro di sé tutte le obiezioni antiscientifiche, tutte le diffidenze nei confronti delle prescrizioni di Bruxelles, tutti i pregiudizi antieuropei, tutte le moderne credenze che sostituiscono la realtà e che abbiamo già visto coalizzarsi per fare fronte contro i vaccini negli anni del Covid. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, aveva parlato di appuntamento storico per l’Europa, paragonabile allo sbarco dell’uomo sulla luna, senza considerare che anche quello sbarco, oggi, troverebbe i suoi avversari. 

Perché la resistenza culturale che rischia di diventare movimento transnazionale contro il Green Deal è in realtà l’ultima manifestazione di un fenomeno che attraversa tutte le democrazie occidentali, e che potremmo chiamare il Grande Dubbio. Un meccanismo che indebolisce ogni livello di governance perché disabilita la capacità delle democrazie di fare sistema, esercitando il comando e capitalizzando il consenso, naturalmente nella distinzione tra maggioranza e opposizione. Non si riesce più a coalizzare l’opinione pubblica attorno all’interesse generale della comunità, sia questa europea, nazionale, addirittura regionale o cittadina. E tutto ciò accade perché il grande oggetto smarrito di questi anni è il bene comune. 

A nessun soggetto politico e istituzionale è riconosciuta l’autorità di definire l’orizzonte generale verso cui muoversi, di indicare le scelte, di battezzare la fase. È come se il potere si fosse spogliato di quella potestà metafisica che gli riconosceva la capacità di dare un nome alle cose, dunque di interpretarle, di rappresentarle e di risolverle davanti al popolo: un autentico retaggio di antica maestà, cancellato dalla ribellione nei confronti dell’élite, che è la vera anima trasversale dei populismi di varia natura. Questo ribellismo del ceto medio espropriato, del nuovo proletariato scartato, della piccola borghesia precipitata e retrocessa è il nucleo di consenso e di successo per le forze che investono nell’antipolitica, finché vincendo non portano il populismo al governo diventando classe dirigente dissimulata, col rischio di essere assorbiti nei fatti dall’élite agli occhi dei loro stessi sostenitori. Per questa ragione il populismo è costretto a muoversi sul filo scomodo del rasoio antipolitico, in equilibrio sulla sua doppia natura, con un piede dentro il sistema e uno fuori. La responsabilità del governo impone infatti degli obblighi, e delle scelte. Dopo aver eccitato il risentimento dei cittadini contro le istituzioni, i centri decisionali, l’organizzazione del sapere, i poteri forti, le comunità scientifiche, quando governa il populismo deve fronteggiare quella stessa diffidenza che ha suscitato e alimentato, e che si deposita nel Paese con un sentimento diffuso di confisca. È la sensazione dell’esproprio di un pezzo di realtà, di un’esclusiva-privativa del meccanismo decisionale, l’esercizio di un monopolio della conoscenza, a esclusivo beneficio dei soggetti garantiti. Un abuso di posizione dominante. 

Si tratta di ceti attaccati dalla crisi che si sentono esclusi, marginalizzati o anche soltanto ingiustamente penalizzati, e hanno ormai rinunciato a ogni vincolo di solidarietà e di comunità, rifugiandosi in una concezione individuale della cittadinanza limitata alla categoria, al gruppo, all’interesse: e intanto hanno accumulato una pesante cambiale di rancore privato inesigibile in pubblico, un credito impolitico che non riusciranno mai a riscuotere. Figli della crisi, non accettano soprattutto la decretazione dell’emergenza, da quella sanitaria a quella climatica. Nell’emergenza non vedono l’interesse generale da tutelare, ma gli interessi particolari da regolamentare. In sostanza, rifiutano le misure disciplinari che necessariamente nascono da una situazione di allarme, per garantire la libertà collettiva del sistema. Ma l’unica libertà che oggi sembra avere ancora un senso è quella egoista del singolo, deciso a respingere vincoli sociali legati a ragioni generali che non riconosce più. Anzi, dopo aver denunciato le nuove regole come costrizioni, fa infine un passo in più, l’ultimo: cancella la realtà che impone di far fronte al pericolo, e nega che il problema climatico esista, come ieri negava il vaccino, o addirittura il virus. 

Se si accetta di entrare in questa realtà parallela ogni cosa si ricompone, in una deforme coerenza col Grande Dubbio da cui tutto è incominciato: il potere inganna, la politica è succube, i media sono complici, il sistema è il complotto. Manca l’ultimo centimetro, che è la dichiarazione di rifiuto della democrazia come suprema truffa: ma basta aspettare, ci siamo vicini. 






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