Una preghiera per Svetlana
Sui nostri schermi e nei nostri occhi la rappresentazione di tutto quanto la giornalista Svetlana Aleksievic si auspicava non si ripresentasse mai più
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Sui nostri schermi e nei nostri occhi la rappresentazione di tutto quanto la giornalista Svetlana Aleksievic si auspicava non si ripresentasse mai più
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Sui nostri schermi e nei nostri occhi la rappresentazione di tutto quanto la giornalista Svetlana Aleksievic si auspicava non si ripresentasse mai più
“Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. Questo è un dubbio che viene, nella pioggia, quando uno ha le scarpe rotte, acqua nelle scarpe rotte, e non più nessuno in particolare che gli occupi il cuore, non più vita sua particolare, nulla più di fatto e nulla da fare, nulla neanche da temere, nulla più da perdere, e vede, al di là di sé stesso, i massacri del mondo”.
(da Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia)
Il 14 giugno 1986, due mesi dopo la tragedia di Cernobyl, la giornalista bielorussa che nel 2015 si aggiudicherà il Premio Nobel per la letteratura, Svetlana Aleksievic (classe 1948), nella prefazione al suo libro Ragazzi di zinco scriveva: “Continuo a ripetermelo: non scriverò più una riga sulla guerra. Dopo il mio libro La guerra non ha un volto di donna per molto tempo non ho più potuto sopportare la vista di un bambino infortunato che perdeva sangue dal naso, in campagna mi tenevo alla larga dai pescatori che gettavano allegramente sulla sabbia della riva i pesci strappati al loro elemento: quegli occhi sbarrati e gonfi mi facevano star male”.
Ma Ragazzi di zinco non è stato l’ultimo libro di Svetlana a fare i conti con i traumi del regime sovietico; in seguito fu la volta dello sconvolgente Preghiera per Cernobyl (con le testimonianze drammatiche e struggenti di chi, in veste di testimone o protagonista, in quei giorni era in loco), Tempo di seconda mano, Incantati dalla morte e altri. E la polifonia di voci attraverso la quale Aleksievic, instancabile, traghetta la storia di un popolo che è molti popoli, si compatta in un tragico coro greco, per raccontare soprattutto una cosa: l’irreparabilità del dolore che si trascina per decenni, macchiando anche le generazioni successive.
E ora, eccolo nuovamente lì quel dolore, come una rappresentazione live di tutti i dolori narrati dalla grande giornalista. Lo vediamo in tv, ne sentiamo alla radio, ce lo raccontano conoscenti e amici di amici. Abbiamo di nuovo Cernobyl, temibile grimaldello in mani non si sa quanto esperte e consapevoli, abbiamo di nuovo lo strazio e la disperazione, misti a un’impotenza squassante, delle madri e delle donne, quelle vittime naturali della guerra, che una guerra mai l’hanno iniziata. E abbiamo di nuovo loro, i ragazzi di zinco. Giovani soldatini russi spesso imberbi, brufolosi e spaventati (così almeno li abbiamo visti nei video che circolano in rete), poco diversi dai giovani ucraini, ad accomunarli il fatto di avere perso un sogno in una notte, il sogno di un’esistenza, di un progetto, di un futuro.
In Ragazzi di zinco Svetlana Aleksievic raccoglieva le devastanti testimonianze dei protagonisti della lunga occupazione afghana (1979-1989) da parte dell’Unione Sovietica. Un’operazione militare in cui molti videro parallelismi con l’inutilità del Vietnam degli americani, e che richiese l’intervento di almeno un milione di giovani sovietici, con perdite stimate nelle decine di migliaia. Soldatesse e soldati uccisi venivano rimpatriati nelle famigerate casse di zinco, sigillate e caricate sull’aereo Cargo 200, dove il numero stava a indicare la cifra massima delle bare trasportabili per ogni volo.
L’Ucraina, che ai tempi era parte dell’Unione Sovietica, deve ricordarle bene, così come deve avere presente cosa quella cifra, “200”, rappresenti ancora oggi per i russi. Ha dunque deciso di utilizzarla per un doppio scopo. 200 RF è infatti il nome di un sito in cui (in un inno alla trasparenza, certamente, ma anche per un uso sofisticato della psicologia di guerra) vengono pubblicati i documenti dei soldati russi caduti, nonché i videoappelli dei giovani prigionieri. Alla Russia, che non intrattiene alcun tipo di corrispondenza con le famiglie delle vittime, e che avrebbe preferito vedere rimosso dalla propria memoria storica il fallimento afghano, oltre al dileggio, giunge anche un messaggio di trasparenza e democrazia che, al di là dell’arma psicologica, forse intende ancora una volta asserire l’importanza e il diritto della verità.
200 RF non basterà a fare desistere nessuna delle parti. Non basterà a placare quella sete di sangue e distruzione che cresce quasi naturalmente giorno dopo giorno quando inizia una guerra e si abbassa l’asticella verso il pudore del male. Non basterà, con tutta probabilità, ad asciugare le certe lacrime di Svetlana Aleksievic, che dopo avere passato una vita intera a puntellare la pace là dove presentava le crepe e le omertà più grandi, oggi vede un mondo, il suo, il nostro, fumante e in frantumi. Nell’impotenza del nostro vivere quotidiano, dunque, nell’incapacità di dare un senso a ciò che un senso non può e non deve avere, sfogliando le fitte e crude pagine dei libri della giornalista, non resta, forse, che intonare Una preghiera per Svetlana.
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