I Martiri di Chicago e le nostre mani
Come è nata la festa del lavoro oltre un secolo e mezzo fa
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Come è nata la festa del lavoro oltre un secolo e mezzo fa
• – Redazione
Sihanoukville, in Cambogia, è stata trasformata dalla mafia cinese nella capitale delle truffe online. Fatte da persone tenute prigioniere, picchiate e obbligate a pagare letto e cibo
• – Redazione
Un autore che andrebbe letto o riletto per non farsi affascinare e intrappolare da una falsa visione della tecnica e del capitalismo
• – Lelio Demichelis
La loro è una storia di successo, allora perché vivono un malessere tanto profondo?
• – Boas Erez
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• – Ruben Rossello
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• – Redazione
Di Michele Serra, La Repubblica Stavo cercando il modo meno retorico (dunque meno vago) per spiegare la profonda ostilità che mi ha suscitato il discorso — ennesimo — della...
• – Redazione
La superproduzione cinese, le esportazioni e i porti intasati, mentre l’UE vara programmi senza verificarne e pianificarne la realizzabilità: emblema di una società paranoica
• – Silvano Toppi
Ursula von der Leyen rivuole la presidenza della Commissione UE: qualche buon risultato, ma è poco amata e la “sua” Germania non se la passa bene
• – Cecilia Cacciotto
Il team guidato dalla francese Colonna sottolinea che l’agenzia dovrebbe controllare meglio il personale: «Gerusalemme però non ha ancora fornito prove a sostegno delle sue affermazioni contro gli operatori»
• – Redazione
Come è nata la festa del lavoro oltre un secolo e mezzo fa
Vorrei festeggiare con voi la festa del Primo Maggio raccontandovi una storia, una vecchia storia, così vecchia che potrebbe sembrarvi inaudita. Una storia di lavoratori naturalmente, che il Primo Maggio è la loro festa; sì, non la festa del lavoro ma di chi lo vende, chi vende le proprie mani e la propria mente a prezzi di mercato. È una festa antica di un secolo e mezzo e più, si festeggia la vittoria dei lavoratori dell’Illinois che il primo giorno di maggio del 1867 ottennero la prima legge al mondo che imponeva le otto ore lavorative. Se otto ore vi sembran poche venite voi a lavorar, e proverete la differenza tra lavorare e comandar. E siccome le conquiste dei lavoratori hanno una storia che è fatta anche di sangue, nel contempo si ricordano i Martiri di Chicago, i sette operai anarchici impiccati perché implicati nei disordini che a Chicago seguirono lo sciopero generale indetto il primo giorno di maggio del 1886 perché le otto ore fossero estese a tutto il territorio dell’Unione. Non credo che ci sia ancora memoria di tutto questo, ma in particolare non credo che sia rimasta memoria dello spirito della festa, il profondo senso di orgoglio, la fierezza con cui i lavoratori si mostravano quel giorno alla città, al mondo. Finché ero un ragazzino, mio padre il primo di maggio si vestiva a festa, si insigniva di un garofano rosso all’occhiello della sua giacca del matrimonio, l’unica che possedeva per le feste, e sfilava con i sui colleghi operai per una città imbandierata, la banda musicale in testa, la gente che applaudiva dai marciapiedi. Era il tempo in cui i lavoratori erano colmi della certezza di aver edificato il Paese, lo avevano ricostruito mattone su mattone, bullone su bullone, campanella di scuola su campanella di scuola dalle macerie della guerra e della dittatura.
E di questo tutta la comunità era riconoscente, ed era sincera e unanimemente convinta che dal lavoro si generasse libertà, dignità, pace. E le lotte di allora, ancora per le otto ore e, per l’abrogazione del sistema dei cottimi, per i salari giusti, per la previdenza, per le condizioni di sicurezza, erano sì dure e dagli esiti sempre contrastati, ma sempre combattute nella convinzione che la vittoria sarebbe stata inevitabile, la storia era dalla parte del lavoro, il conflitto era duro, ma il conflitto generava progresso. E così è accaduto, nel tempo della mia giovinezza, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, il conflitto tra capitale e lavoro si è volto a favore del lavoro, una sera mio padre è tornato a casa con il contratto unico, un’altra con il servizio sanitario nazionale, e lo statuto dei lavoratori, e mio padre e mia madre per la prima volta in vacanza in montagna perché adesso il salario arrivava fin lì. E la coscienza nuova di non aver solo ricostruito il Paese ma di poterne edificare uno nuovo, la classe lavoratrice che si faceva carico non solo del proprio progresso ma di quello dell’intera comunità. Così, quando nell’autunno del ’69 occupai la mia scuola, e al pari delle occupazioni di tutto il Paese non era una cosa leggera, durò mesi, almeno fino all’applicazione della straordinaria riforma del sistema scolastico, a portarci il cibo e le coperte venivano gli operai dei cantieri navali, e erano loro che ci facevano scudo durante i cortei dalle cariche dei celerini. Pensavano i lavoratori, pensavano i loro sindacati, che la battaglia dei loro figli per una nuova scuola fosse anche una loro battaglia, così come lo era quella per il divorzio, per un nuovo diritto di famiglia. Prendersi carico della comunità, farsi classe dirigente, questo era il sentimento, incredibile che possa apparire nell’oggi.
Ed ecco la storia di lavoratori che vi voglio raccontare. Appena diplomato ho cominciato a fare il maestro di scuola, il mio primo incarico è stato un insegnamento piuttosto speciale. Intanto che occupavo la scuola, avevo trovato il modo di studiare un po’, abbastanza da abilitarmi anche all’insegnamento dei non vedenti e il mio primo incarico me lo ha assegnato l’Unione Ciechi della mia città, mi sarei occupato dell’istruzione primaria di un bambino non vedente. Era il 1971. A quel tempo l’istruzione dei non vedenti era confinata negli istituti a questo preposti, istituzioni concentrazionarie che isolavano dalla società, orientavano gli alunni alle mansioni tradizionalmente, da millenni, riservate ai ciechi, escludendoli da ogni concreta possibilità di relazione e integrazione con i loro coetanei e la comunità, e quel bambino, che fatalmente portava il mio stesso nome, era destinato a uno di quegli istituti, per altro a centinaia di chilometri da casa. Ma era tempo di grandi fermenti, era tempio di rivoluzione anche per l’Unione Ciechi, e decise che a partire da Maurizio le cose dovessero cambiare, io non ero solo un maestro, ero diventato un militante di un vasto movimento antisegrazionista. Quel bambino non era solo cieco, ma anche tetraplegico, “pluriminorato” era la definizione tecnica ufficiale, e se da cieco non aveva altro destino che l’istituito, da tetraplegico poteva essere inserito in una classe speciale, una classe differenziale, altro confinamento, ancora esclusione, ma un filo meno reclusiva, in fin dei conti la sezione speciale era a due passi delle sezioni per i ”normodotati”.
E così non fu solo la battaglia per un bambino, ma di tutti gli esclusi confinati nella classe differenziale. Fu una battaglia dura, i direttori didattici, il provveditore, i pregiudizi, e le leggi dietro a cui si trinceravano, erano gli avversari, gli alleati erano prima di tutto i genitori dei bambini, e poi Basaglia naturalmente, e i colleghi di lavoro dei genitori. I lavoratori pensavano di doversi caricare del destino anche dei discriminati, degli esclusi, la loro sofferenza era la sofferenza di tutti. E Maurizio entrò in una classe “normale” contro la legge che glielo impediva, contro le opinioni contrarie delle autorità scolastiche, contro gli egoismi di uomini e istituzioni che traevano dalla condizione di esclusione le loro posizioni di rendita, contro un destino segnato da secoli. Ci entrò non perché lo accompagnavo io e i suoi genitori, ma perché davanti a noi c’era tutto il consiglio di fabbrica dell’azienda di suo padre, in tuta da lavoro e con le bandiere del sindacato. Ci entrò a scuola perché quello era il tempo in cui non poteva che accadere, e infatti nel giro di pochi anni arrivarono le leggi, la sensibilità, l’ovvietà dell’inclusione.
Una vecchia storia di lavoratori per questo Primo Maggio, una vecchia storia che parla di nuovi fatti; lo sapete, c’è chi sta facendo campagna elettorale perché Maurizio se ne torni in istituto e la smettesse di tarpar le ali ai “normali” a quelli che devono poter andare avanti senza la palla al piede dei “minorati”. E non è detto che non potrebbe aver fortuna il generale e la sua rivoltante dedizione al male, questo è il tempo della pubblica e privata infelicità, dell’egotismo eletto a sistema di governo e di relazione, il tempo della paura per ogni forma di vita che attenti all’imperativo immorale “prima gli italiani” intendendo prima io; e questo cancro che sta consumando la Repubblica, e con l’attuale governo si è fatto metastasi, ha una storia anamnestica lunga trent’anni. E dovesse accadere, io non so se ci sarà mai uno scudo di lavoratori a difesa del diritto del mio alunno a crescere e istruirsi assieme a tutti gli altri alunni, e il diritto degli altri alunni a crescere con lui. Non lo so perché non riesco a vedere né orgoglio di costruttori, né fierezza di casse dirigente nei lavoratori che oggi hanno diritto alla loro festa, e per buoni motivi. Perché il loro lavoro vale sempre meno, quando non vale niente e sono costretti a venderlo al peggior offerente, visto che il migliore non esiste; perché non c’è il futuro del Paese da edificare ma solo da gratificare gli azionisti con i profitti trimestrali succhiati via dalla palude della sua stagnazione.
Mi chiedo quanti tra i lavoratori che oggi ricorderanno il secolo e mezzo del diritto alle otto ore se lo possono davvero permettere il lusso delle otto ore. Nel giorno che ricorda i martiri di Chicago, mi chiedo quanti dei lavoratori che rischiano la vita, ancora i martiri, possono permettersi di lavorare in sicurezza. Quando c’è chi è pagato tre euro in nero all’ora nelle campagne, quando c’è chi deve rispettare ritmi di lavoro inumani. Quanta sicurezza può permettersi un rider che deve correre come un pazzo per consegnare una pizza? Quanto straordinario fuori busta deve fare un operaio di una piccola industria orgoglio dell’ingegno nazionale per sopravvivere con una famiglia a carico? Cosa è rimasto dello Statuto dei Lavoratori, cosa è rimasto delle ormai antiche conquiste? Io mi sono laureato da studente lavoratore grazie alle 150 ore che il sindacato ha conquistato perché i lavoratori potessero elevare la loro condizione attraverso lo studio; quanti lavoratori oggi hanno la possibilità di elevare la loro condizione? Cosa è rimasto della classe lavoratrice? Di quella niente, perché ne è stata da tempo decretata la fine, l’estinzione per sopravvenute cause di forza maggiore. E sarà anche così, ma non per questo sono finite le classi, infatti la classe del capitale è viva, eccome. Tanto viva che la sua festa è tutti i giorni. Tutti tranne questo, tranne il Primo maggio, direi se non altro per discrezione.
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