Il cemento non tollera i colori,
annienta la luce, sfracella le diversità,
è come la nebbia, non conosce argini,
pervade e inghiotte ogni cosa.
Come la nebbia, ha il potere
di cancellare il progresso,
di far calare la morte dove era la vita,
di travolgere prati, colori e colline.
Mattia Cavadini, Un cielo blu genziana, Gabriele Capelli Editore, 2015
“Questa pubblicazione” avverte l’autore “nasce da due esigenze molto personali. La prima è quella di ritrovare l’indipendenza e la libertà che solo una pubblicazione cartacea sa offrire” (e qui il riferimento è a quanto si legge oggi sui social media, che hanno portato a “un livellamento verso il basso del linguaggio e dei pensieri, al punto che persone che nemmeno dieci anni fa esprimevano le loro opinioni e le loro frustrazioni sulle piastrelle di un vespasiano, oggi diventano dei leoni da tastiera o addirittura degli influencer”). La seconda ragione che ha portato al volume di cui parleremo è l’esigenza “di poter esprimere liberamente alcuni pensieri sul mondo che mi circonda, e in particolare su alcuni aspetti del Canton Ticino, della sua storia passata e recente, senza dover sottostare a forme espressive politicamente corrette o ricorrere ad una velata autocensura, spesso necessari e non solo quando si trattano temi sensibili riguardanti realtà molto vicine, ma pure quando ci possono essere conflitti di interesse, quasi sempre presenti in una piccola comunità provinciale, o semplicemente quando c’è il desiderio di piacere o di compiacere. L’autopubblicazione, senza ricorrere ad un editore, e l’autofinanziamento pongono tuttavia dei limiti per quanto riguarda la diffusione”.
Nato nel 1958, licenza in lettere e storia all’Università di Ginevra, giornalista (free lance o collaboratore esterno che dir si voglia, quasi a confermare le sue parole citate poco fa), Francesco Mismirigo è stato, dal 1995 al 2009, responsabile comunicazione della FTIA (Federazione Ticinese Integrazione Andicap) e, dal 2010 al 2016, delegato del Cantone Ticino all’integrazione degli stranieri. Altre esperienze professionali le ha fatte nel settore del turismo e viaggiando egli stesso moltissimo.
Un territorio assassinato, autopubblicato nei mesi scorsi, è una raccolta – come spiega il sottotitolo – di Riflessioni e osservazioni personali sul Ticino e molti dintorni. Dintorni con i quali la nostra regione può essere confrontata, realtà che “relativizzano assai il discorso sul degrado del nostro territorio. Che certamente non è paragonabile a quanto è successo ad esempio nelle periferie di Palermo, Beirut o del Cairo, oppure lungo certe coste spagnole, francesi, albanesi o montenegrine dove spesso speculazione edilizia e abusivismo hanno praticamente cancellato sotto colate di cemento e asfalto villaggi, campi, pascoli, aree boschive, coste marine. A volte per creare lusso effimero, ma pure molta ulteriore povertà.” Ma, prosegue l’autore, “non è perché altrove si è agito malamente che da noi non dobbiamo denunciare e contrastare certe situazioni simili per quanto riguarda il degrado del territorio. Spesso inutilmente stravolto unicamente nel nome dell’indotto e dell’interesse di pochi”.
Il libro è dunque (anche) una sorta di pamphlet che, come ogni pamphlet, si configura anche come atto d’amore per il nostro Cantone. Amore, sì, ma non a prescindere, anzi sofferto e osservato nel proprio mutare (non in meglio). Descritto con lucidità, con la consapevolezza che i suoi sono giudizi personali che possono apparire il frutto di una “idealizzazione del passato” e di una forma di nostalgia che non considera “tutte le dinamiche contemporanee, dominate da nuovi produttori di altri sogni, da una cultura di massa e da nuove abitudini e nuovi sguardi dei cittadini, dei consumatori, dei lavoratori residenti e non, dei turisti, degli imprenditori economici e culturali e dei politici”. Di un mondo e di un’umanità più grandi, insomma, dei quali siamo parte, con cui dobbiamo confrontarci apertamente, senza pregiudizi: né migliori, né peggiori, e comunque coinquilini “condannati” a convivere.
Messe le mani avanti e dedicato il libro all’arch. Tita Carloni (“per aver lottato fino all’ultimo per arginare il declino e per fermare il cemento”, il volume (280 pagine, con prefazione del 24enne Alex Uboldi, animatore di Radio Ticino) si suddivide in tre parti principali (ognuna delle quali contiene decine di testi brevi o brevissimi) e una conclusione. È il primo e più lungo (Dalle Alpi ai Tropici, suona quasi deamicisiano) quello in cui Mismirigo si sofferma più direttamente sulla nostra realtà svizzero-italiana.
Si inizia con una descrizione del Ticino invernale venata di malinconia, attraversata da ricordi personali, episodi, immagini, odori e profumi, quelli dell’infanzia e della prima gioventù che ti restano dentro per sempre. Tre pagine (dalla 18 alla 20) che rivelano la scrittura colta, elegante dell’autore, ma lo portano, soprattutto, a un’osservazione centrale (che, in questo caso, mi ha ricordato l’amato Pavese de I mari del Sud): “Ci sono posti che ti accompagnano tutta la vita. Ci nasci, poi li frequenti con la famiglia, poi con gli amici e poi li porti sempre teco in giro per il mondo. E un giorno, dopo aver sognato di vivere definitivamente a Santa Fe, alle Far Øer, a Beirut, a Porto, in Provenza o a Losanna ti accorgi che quel fil rouge primordiale ti riporta dove effettivamente stai bene”.
Subito dopo, però, ecco il primo di una serie di capitoletti che, invece, assumono spesso il tono della requisitoria e sono una lunga rassegna di errori, orrori, massacri subìti dal nostro territorio. Non che Mismirigo ne avesse bisogno, ma a farglieli notare è un amico venuto a trovarlo dalla Svizzera romanda: “E man mano che si visitava vedevo questo mio Cantone attraverso i suoi occhi, vedevo quello che vedo ogni giorno ma che l’abitudine cancella”. Davanti ai loro occhi si manifestano “l’ accozzaglia di stili architettonici, a volte banali e dai colori spesso immondi, che occupano quasi tutte le zone abitate del Ticino. Vedevo i casermoni e le torri che hanno cancellato per sempre la memoria del quartiere Rusca di Locarno, le facciate fatiscenti, lo scandaloso degrado dell’area del Grand Hôtel, i resort di lusso e le lussuose Senioren Residenzen frutto di un cocktail micidiale fra servilismo, svendita e speculazione. E mentre questo mio amico si copriva gli occhi, e non scherzava, dalle alture di Rancate e di Castel San Pietro vedevo fra Chiasso e Capolago una distesa che non lascia spazio a nessun Belvedere: un ammasso di forme informi di metallo, cemento e catrame il cui culmine dell’orrore architettonico si esprime allo svincolo di Mendrisio, la notte.”
Ecco, queste lunghe citazioni credo diano perfettamente l’idea del libro. Nel quale, si badi bene, non tutto è orrore e scempio. “Poi, finalmente, dopo aver passato il nucleo di Morbio Superiore si respira: la Valle di Muggio sembra conservare un fragile equilibrio fra speculazione, sfruttamento del territorio, cattivo gusto architettonico e valorizzazione delle bellezze del paesaggio”. Proprio a Scudellate (frazione di Breggia, meno di 30 abitanti), Mismirigo trascorreva le vacanze estive con sua zia che, negli anni ’50, gestiva la mitica Osteria Manciana, crocevia di guardie di confine svizzere e italiane, militari, contrabbandieri. Erbonne, appena al di là del ponte pedonale, vista con gli occhi del bambino era per lui “l’inizio del misterioso Oriente”, mentre, mezzo secolo più tardi, con la consapevolezza della maturità, osserva: “Il territorio fra Scudellate e Erbonne era uno solo. E solo un’ideologia prima e una guerra poi li separarono. Ma mai del tutto”.
Si salvano dal j’accuse del giornalista anche altri luoghi: “La stessa impressione l’abbiamo avuta guardando Meride oppure i nuclei storici di Origlio, Morcote, Ascona e Rivapiana dai rispettivi laghi. Oasi di bellezza dove l’urbanicidio non sembra presente e dove ti puoi illudere che siamo ancora un bel Cantone”.
Una lettura interessante, insomma, che si snoda tra due dimensioni, quella locale e quella globale, e che richiama – ognuno nel proprio ambito di competenza e tutti nel nostro ruolo di cittadini – alle proprie responsabilità. Con una stoccata finale ai cosiddetti intellettuali: “Solitamente quando conflitti politici ed eccessi economici minacciano l’essenza stessa di un’identità artisti e intellettuali si mobilitano, uniti e con veemenza. In Ticino non succede più, o molto raramente”.
Nell’immagine: il semisvincolo di Bellinzona in corso di realizzazione