In meno di un mese, a Gaza sono stati uccisi più civili che in quasi due anni di guerra in Ucraina. Circa 20 mila nella Striscia, secondo il ministero della sanità di Hamas, comunque non meno di 15 mila stando all’intelligence americana e a studi indipendenti; un po’ più di 10 mila nell’ex “piccola Russia” aggredita da Vladimir Putin, stando ai calcoli delle Nazioni Unite. Pur con tutte le differenze dei due scenari di guerra (tra eserciti in Ucraina, tra potenti forze armate e miliziani jihadisti a Gaza), il confronto fra queste funeste statistiche, con il loro straziante e intollerabile carico di dolore, raffronto così poco evocato nelle ultime settimane, confermano la spropositata, spaventosa, ingiustificata dimensione della rappresaglia israeliana al “sabato nero” del 7 ottobre, atroce e ingiustificabile attacco terroristico delle formazioni di Hamas contro le famiglie dei kibbutzim e contro il rave frequentato da centinaia di giovani nel Neguev israeliano. Uccisi (in 1.200), e in parte presi in ostaggio (più di 200), non perché pericolosi nemici in armi, ma soltanto perché ebrei.
Così come in terra palestinese (e bisognerebbe aggiungere i 300 morti della Cisgiordania in dieci mesi), nessuno può pensare che la grande maggioranza di chi è rimasto vittima della potenza di fuoco di Tsahal – in maggioranza bambini, adolescenti e donne – fosse in qualche modo complice del movimento islamista, o da considerare tale. Lo confermano le stesse cifre israeliane: l’esercito di Netanyahu sostiene di aver finora eliminato ottomila combattenti nemici, e pur volendo dar credito a questa versione ufficiale rimane il fatto che, contrariamente a quanto avviene nelle terre ucraine insanguinate, i civili palestinesi uccisi finora sotto uno tsunami di missili, bombardamenti, armi sofisticate, fuoco d’artiglieria, tanks, cannoneggiamenti dal mare, rimangono in netta maggioranza.
Appunto, insopportabile. Anche per quello che si può prevedere e prospettare per il futuro, prossimo o no. La leadership dello Stato ebraico promette prima altre settimane di attacchi, poi parla di mesi, ora addirittura di anni per raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza. Che in definitiva ancora non si sa quali realmente siano, e quanto realizzabili: unicamente deradicare Hamas (alimentando una tragedia umanitaria di dimensioni spaventose, terreno favorevolissimo alla perpetuazione di un’ostilità radicale ed eventualmente terroristica)? Oppure una “pulizia etnica” attraverso l’espulsione del maggior numero di palestinesi possibile verso i confinanti paesi arabi (comunque ostili a una simile deportazione nelle loro nazioni)? O ancora spingerli verso l’emigrazione forzata, massa di profughi che esponenti del governo israeliano insistono affinché l’Occidente li accolga, esplicitamente rinunciando a futuri aiuti economici per la ricostruzione della Striscia?
Progetti giustificati, secondo le autorità dello “Stato degli ebrei” (come si è voluto auto-definire Israele attraverso un voto parlamentare, trascurando una minoranza araba di quasi il 20 per cento della sua popolazione), giustificati da quello che considera il “primo pogrom anti-ebraico” dalla fine della seconda guerra mondiale. Anche sull’uso di certi termini bisognerebbe in realtà prestare più attenzione, ed è stato il direttore del museo dell’Olocausto Vad Yashem a Gerusalemme a condannare il rappresentante di Israele all’ONU che per protesta sulla giacca aveva appuntato la stella gialla di Davide, emblema della persecuzione nazista. Certo, nessuno può eludere o derubricare l’enormità della strage del 7 ottobre scorso. Che non è l’inizio di tutto, ma è sicuramente il terrificante incipit di un nuovo capitolo del conflitto arabo-israeliano. Pensando anche ai numerosi stupri commessi dagli assalitori anti-israeliani e anti-ebrei. Lo sappiamo, lo stupro come arma di guerra non è affatto una novità nello scenario dei vari conflitti internazionali. Ma non si ricorda nulla del genere nel secolare scontro che ha come palcoscenico la Palestina storica. Né basta la costatazione che l’ala militare di Hamas aveva decisamente preso il sopravvento su quella più politica per fornire una spiegazione convincente. Resta l’ignominia. Resta il baratro. Resta il trauma di tutta una nazione. Ed è giusto non perderlo di vista.
Anche per questo pubblichiamo oggi su ‘Naufraghi’ l’integralità di una lunga inchiesta realizzata dal “New York Times” sulle scellerate violenze di genere perpetrate in quella manciata di ore terrificanti. Ma tenerle ben presenti, non può servire a spiegare e giustificare tutto. In particolare non può servire per sdoganare e rendere in qualche misura accettabili i termini della vendetta israeliana, la punizione collettiva di un popolo, inerme e colpito anche nei campi improvvisati al Sud della Striscia, dove gli era stato minacciosamente ordinato di spostarsi con una vaga promessa di immunità: e che invece viene quotidianamente falcidiato.
D’altra parte, fra le motivazioni di quanto di efferato è accaduto poche settimane fa non possono essere del tutto eluse o sottaciute le responsabilità politiche e umane di chi oggi rivendica persino il diritto di non preoccuparsi delle “vittime collaterali”, cioè di migliaia di civili palestinesi uccisi. Responsabilità pesanti e documentabili: prima l’ occupazione militare di Gaza (1967) e i relativi insediamenti dei coloni come “avanguardia e sentinelle” della sicurezza israeliana; poi l’evacuazione (2005) ordinata dal premier-generale Ariel Sharon , tuttavia “compensata” dalla decisione di isolare e sigillare la Striscia in tutti i suoi quattro lati, mare compreso; quindi, soprattutto per suicida cecità dell’attuale premier Netanyahu, per oltre quindici anni alla guida del suo paese, il disegno di servirsi di Hamas (che era nata negli Anni Ottanta proprio con il sostegno di Tel Aviv) come contrappeso agli eredi di Arafat, e dunque per azzerare qualsiasi possibilità di “soluzione dei due Stati”. E’del tutto improponibile la tesi, spesso ripetuta da chi oggi vede solo le ragioni di Israele, di coloro che ripetono come non vi sia legame, non vi sia correlazione fra tutto questo e la mattanza del 7 ottobre. Oppure che non vi sia rapporto, in generale, con la decennale occupazione dei Territori palestinesi a ovest del fiume Giordano, sempre più colonizzati: soprattutto da quest’ultimo governo di destra estrema, che campa sulla indispensabile partecipazione di chi in passato apparteneva a un partito messo addirittura fuorilegge dalla magistratura israeliana per razzismo e violenza, e che è sempre più attivo nel pretendere l’annessione pura e semplice di Cisgiordania e Gaza.
Tutta la drammatica vicenda israelo-palestinese, che ha un secolo di tormentata storia, è un susseguirsi di rapporti di forza: da quella che nel 1948 gli Stati arabi (poi sconfitti) misero in campo con l’illusione di cancellare la risoluzione ONU per la creazione dei due Stati, a quella che nell’ultimo mezzo secolo i governi di Tel Aviv hanno utilizzato con l’evidente obiettivo di realizzare il biblico progetto del “Grande Israele”. Come (tranne rare e controverse parentesi, anche quella di Oslo) se non si fosse mai spento lo slogan di Golda Meir di “un popolo senza terra, per una terra senza popolo” (quello palestinese, che in realtà ancora nel ’48 era maggioritario). Come se Ben Gurion non avesse ammonito i suoi, chiedendo loro di non dimenticare ciò che avevano subito gli arabi locali. Disse il padre della nazione : “Ci sono stati l’anti-semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro (ndr: gli arabi) in tutto questo cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?”. Il che non impedì che sotto la sua guida vi fosse l’espatrio di 750.000 palestinesi (in fuga per paura della guerra, per la propaganda araba ma anche per specifico intervento militare israeliano) e la distruzione di centinaia di villaggi palestinesi rasi al suolo.
E quale è stato nelle ultime settimane la feroce ed eloquente sortita di un ministro di Netanyahu? “Ben Gurion doveva portare a termine il lavoro”. Allora si capisce come, per numero di vittime civili e massiccia distruzione delle abitazioni di Gaza, l’insopportabile replica armata di Israele si stia forse trasformando in qualcos’altro. Hamas accusato di proteggersi usando i civili come scudi umani, in violazione dei più elementari diritti? Giusto. Ma che differenza fa se poi quegli stessi innocenti “scudi” vengono disumanizzati, diventano ‘vittime collaterali’, sono annientati a decine di migliaia in una controffensiva senza regole e senza limiti?
Nell’immagine: Gaza, le vittime della vendetta