Iran, un anno dopo l’omicidio di Masha Amini: le voci di dentro
Tra pochi giorni sarà un anno da quando Mahsa Amini è stata ammazzata dalla polizia religiosa per una ciocca fuoriuscita dal velo
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Tra pochi giorni sarà un anno da quando Mahsa Amini è stata ammazzata dalla polizia religiosa per una ciocca fuoriuscita dal velo
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Tra pochi giorni sarà un anno da quando Mahsa Amini è stata ammazzata dalla polizia religiosa per una ciocca fuoriuscita dal velo
Di Francesca Paci, La Stampa
Le voci da dentro sono quelle delle iraniane, più e meno giovani, che in questi mesi entrano e escono dal carcere perché, nonostante la brutale repressione del regime , non smettono di protestare nel nome del movimento “Donna, vita, libertà”. Alcune sono più politiche, come Bahareh Hedayat, che su richiesta della madre di Mahsa Amini ha appena interrotto lo sciopero della fame iniziato in cella il 9 settembre e annunciato nella lettera che pubblichiamo. Altre sono semplici studentesse senza precedenti esperienza di militanza. Tutte, da dentro e da fuori, scrivono lettere per testimoniare la loro determinazione a non fermarsi. Ne abbiamo scelte alcune, indirizzate al regime ma anche a noi.(ha collaborato Parisa Nazari)
Bahareh Hedayat
Economista e attivista, 42 anni
Alla vigilia dell’anniversario dell’omicidio di Mahsa Amini i suoi assassini hanno avviato una doppia repressione per cancellarne nome, divenuto “il nome in codice” della nostra memoria e della nostra coscienza. Il governo totalitario vuole far sembrare normale il mondo capovolto che ha creato, con migliaia di giovani assassinati per il crimine di aver ballato come Javad Rouhi. Far sembrare normale che gli studenti universitari e i loro docenti siano stati privati dei loro diritti negli atenei iraniani e che alla vigilia dell’anniversario di Mahsa le famiglie dei manifestanti siano state sottoposte a una repressione implacabile. Dietro le mura del carcere di Evin, la falsità creata dal regime scorre davanti ai nostri occhi. La falsa accusa di aver lavorato con governi ostili contro gli attivisti ambientalisti Sepideh Kashani e Nilofar Bayani, quella di aver insultato Khamenei contro Sepideh Qalian, quella di prostituzione per centinaia di donne detenute e torturate a Evin.
In accordo con la mia coscienza, per la libertà delle icone del movimento “donna, vita e libertà” Elahe Mohammadi e Niloofar Hamedi, in protesta contro l’omicidio di Javad Rouhi e a sostegno dell’anniversario della resistenza delle donne alla ricerca della libertà del mio Paese, inizierò il 9 settembre lo sciopero della fame. Che questo sia un piccolo contributo alla libertà dell’Iran, una terra stanca della tirannia.
Sepideh Gholian
Studentessa di veterinaria, 28 anni
Il mio messaggio vi arriva dalle mura della prigione di Evin, un edificio vecchio più di cinquant’anni che è sinonimo di tortura e repressione ma anche, paradossalmente, simbolo delle aspirazioni alla libertà e alla giustizia del nostro Paese. Verrà il giorno in cui, in un Iran libero, il nome “Evin” ci ricorderà i giorni più bui della nostra storia e il valore inalienabile della libertà (…). Ci sono dozzine di altre carceri che rinchiudono migliaia di prigionieri di coscienza. Tanto il regime quanto il popolo sanno che la democrazia alla fine prevarrà grazie alla forza delle proteste di questi mesi. Il vero incubo del tiranno è il popolo stesso.
Il movimento “Donna, Vita, Libertà” è una grande esperienza di mobilitazione che nasce dalle lotte precedenti e prova il desiderio unanime del popolo iraniano di rovesciare il regime. Non dovete considerarlo un fenomeno passeggero. La convergenza delle rivendicazioni sindacali e di quelle per i diritti civili ha attirato il sostegno trasversale degli iraniani (…).
Mi unisco ai miei compagni di prigionia nell’inviarvi i miei saluti fraterni da Evin. Come donna la cui vita è stata consumata dalla prigione, l’esilio e la tortura, semplicemente per aver chiesto giustizia, posso dire che la speranza è il bene più caro. Teniamolo sempre nel cuore».
Leila Hosseinzadeh
Politologa e attivista, 32 anni
Con cuore inquieto di fronte al sangue versato dalla mia gente intendo esprimere la mia piena solidarietà ai manifestanti rinchiusi nelle prigioni. I muri separano le nostre mani ma mai i nostri cuori (…). Si sente la necessità di un cambiamento radicale nella struttura del Paese per garantire che l’oppressione di classe, di genere e religiosa finisca e che le persone recuperino il diritto alla vita, alla propria identità, alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’alloggio. Tutto ciò non si realizzerà se non attraverso una struttura democratica basata sulla democrazia diretta e decentralizzata, perché altrimenti per lunghi anni ancora saranno gli altri a cambiare sultani e re e noi saremo destinati a rimanere sudditi (…).
Le immagini che mostrano in questi giorni gli scontri tra il popolo e le forze di repressione sono solo una piccola parte del più grande scontro con un sistema che usa la politica di “reprime in ogni modo possibile” (…). L’intera responsabilità per qualsiasi escalation di violenza nelle strade ricade direttamente sul governo, perché il popolo ha il diritto alla legittima difesa. Smettetela di uccidere le persone, prima che sia troppo tardi. Queste persone hanno imparato dai vostri stessi altoparlanti che il sangue vince sulla spada. E tu, popolo, svegliati. Alzati, perché siamo usciti da quel buio e da quella prigionia.
Vida Rabani
Giornalista 33 anni
Il governo iraniano sta tentando di “demoralizzare” gli attivisti attribuendo loro malattie mentali e nervose. È il metodo più subdolo per umiliare chi protesta, esponendolo alla vergogna, facendolo passare per pazzo.
Nel carcere di Qarchak sono stata testimone oculare della libera distribuzione di forti calmanti e ansiolitici come Clordiazepossido, Clonazepam e Trancopin nella sezione 8, dove venivano rinchiusi i giovani arrestati durante le manifestazioni per Mahsa Amini. Nonostante fossi stata in isolamento per 40 giorni e conoscessi il sistema, non riuscivo a credere che fosse vero (. . .) .
Non mi vergogno di dire che la mia psiche è danneggiata e sono costretta a prendere farmaci per combattere ansia e depressione. È il regime che danneggia la psiche dei suoi cittadini a doversi vergognare. È il regime il vero scandalo.
Non dimenticherò mai il bel viso di Yalda Aghafazli né la paura delle ragazze del reparto 8 alla notizia della sua morte. Non dimenticherò mai il detenuto che ha tentato di suicidarsi quando ha saputo che Yalda, appena uscita di prigione, si era uccisa. Avete ammazzato Yalda, se non fosse stata arrestata sarebbe viva: ma al regime cosa importa? Il regime considera senza valore la vita delle persone, la nostra vita (…).
Narges Mohammadi
Attivista dei diritti umani, 51 anni
«Senti, Iran, il suono sordo del muro della paura che si spezza? Collasserà presto, abbattuto dalla volontà implacabile e dalla ferrea determinazione degli iraniani.
Come donna, e come milioni di iraniane, mi sono sempre confrontata in tutti gli ambiti della mia vita con il confinamento della cultura patriarcale, del potere religioso, delle leggi discriminatorie e oppressive. La triste verità è che il governo autoritario, misogino e religioso della Repubblica Islamica ci ha rubato la vita (. ..). Nonostante questa prigione, non abbiamo mai smesso di lottare. Siamo diventati madri e padri, abbiamo conservato i nostri valori, il nostro entusiasmo, il nostro amore, abbiamo ricreato la vita vera (…).
Il governo della Repubblica Islamica nega i diritti fondamentali come il diritto alla vita, la libertà di pensiero e di credo, il diritto di danzare e suonare. Se osservate la società iraniana, vedrete che ogni individuo, in qualsiasi momento della vita e in ogni luogo, è colpevole del desiderio di vivere.
Caro lettore, la sola pubblicazione di questa lettera dimostra che la nostra voce era abbastanza potente da raggiungerti. Sii anche la nostra voce, dì al mondo che non siamo dietro queste mura per niente e che ora siamo più forti dei nostri carnefici. Trionferemo insieme. Sperando che quel giorno arrivi molto presto».
Nell’ immagine: Masha Amini
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