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Redazione
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• 14 Settembre 2023 – Redazione

Di Alberto Negri, il manifesto

Niente a volte è più ingannevole della geografia. Stretta tra Bengasi e Tobruk, negli anni Novanta Derna mi apparve scendendo dall’altopiano verso il mare alla fine di una gola fatta di pareti verticali percorsa dallo uadi che veniva dal Gebel al Akhdar irrigando palmeti, frutteti, agrumeti. 

Credo che oggi, dopo il ciclone Daniel e il crollo delle dighe, nulla esista più di tutto questo. 

Ma anche allora il Gebel, chiamato anche la Montagna Verde, era un’insidia assai temuta dallo stesso colonnello Gheddafi. Qui si annidavano infatti islamisti e jihadisti che più volte avevano provato ad assassinarlo. Per tenere buona la popolazione locale e contenere la predicazione degli imam qui negli anni Duemila Gheddafi lanciò nel mezzo del ginnasio greco la “Dichiarazione della Montagna Verde”, un grande progetto per di ridare splendore alla regione della pentapoli, un piano ambizioso che come molti altri del regime rimase sulla carta. 

Anche questo alla fine era un inganno. Con la fine di Gheddafi nell’ottobre del 2011, in un Paese travolto dall’anarchia, a Derna nel 2015 tornarono i jihadisti: erano i combattenti libici dell’Isis protagonisti delle battaglie a Dayr az Zor, in Siria, e poi a Mosul in Iraq.

La destabilizzazione scatenata sull’onda dalle primavere arabe del Medio Oriente si allargava alla penisola arabica in Yemen e quindi anche in Africa. Finito il rais libico le frontiere della Jamahyria erano sprofondate nel Sahel con la diffusione del jihadismo, seguita successivamente dai colpi di stato militari: storia di questi ultimi tempi, dal Mali al Burkhina Faso al Niger. 

A Derna allora fu issata la bandiera nera del Califfato ed ebbe inizio una lunga sequela di omicidi mirati contro tutti gli oppositori, dai miliziani delle altre fazioni compreso il battaglione Abu Salim, affiliato con al Qaeda – fino agli attivisti, ai giudici, agli avvocati. La stessa tecnica utilizzata da Ansar al Sharia a Bengasi per togliere di mezzo gli avversari. A Derna l’Isis, allora ancora guidato da Abu Bakr, fece insediare un emirato e la città venne trasformata nella triste e cupa capitale del Califfato in Cirenaica. 

Derna e la regione erano destinate a diventare un campo di battaglia. Prima tra le milizie islamiste con gli affiliati di Al Qaeda che tentarono la rivincita per far fuori il Califfato. Poi del generale Khalifa Haftar contro tutti i jihadisti e quelli che volevano contrastarlo. La città fu il bersaglio dell’aviazione di Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Russia e anche dalla Francia. Senza contare un discreto appoggio americano visto che il generale aveva passato oltre vent’anni in esilio negli Stati Uniti. Derna fu ridotta in alcune zone della città a un colabrodo: distruzione su distruzione.

Nel Marocco colpito dal terremoto almeno c’è uno “stato”, una monarchia con il sovrano padre padrone del Paese che però tace. Non come in Libia che dopo la caduta di Gheddafi dopo la rivolta di Bengasi e l’intervento occidentale si è spaccata tra Cirenaica e Tripolitania senza più ritrovare l’unità. Ormai sono due anni che si devono tenere elezioni per riunificare i governi di Tripoli e Bengasi ma francamente il traguardo appare ancora distante. 

Il ciclone Daniel con il crollo di due dighe nella regione di Derna ha spazzato via migliaia di vite che da anni vivono in un ambiente tossico: ma chi in questi decenni ha fatto più manutenzione in Libia, se non a eccezione degli impianti petroliferi utili a rimpinguare le entrate di governi più simili a cleptocrazie di trafficanti di esseri umani, divisi in clan e tribù, che non a una nazione? Basta andare a Ras Jedir, al confine tra Libia e Tunisia, dove traffici di ogni tipo alimentano un’economia da mezzo miliardo di dollari l’anno. Lì dove i migranti, derubati, sfruttati e vessati, muoiono nel deserto, lontani da ogni testimonianza, senza alcuna possibilità di salvezza. 

La tragedia è avvenuta proprio a Derna la cui liberazione da islamisti e jihadisti fu annunciata qualche anno fa dallo stesso generale Haftar. La vittoria, accompagnata dai raid americani, prima sullo Stato islamico poi sui gruppi legati ad Al Qaeda aveva spianato la strada alla conquista di una città di 100mila abitanti ma era stata ottenuta con un alto prezzo di sangue e distruzioni. Ma chi si era poi occupato della sorte e della sicurezza della popolazione? Nessuno: il generale Haftar ha pensato prima di tutto al suo potere, come quando nel 2019 tentò di conquistare anche Tripoli, fermato dal governo Sarraj e soprattutto dai droni e dai soldati turchi. Nessuno in questi anni ha mai pensato ai libici lasciati in mano alle divisioni claniche e regionali. 

Non ci hanno pensato neppure le potenze straniere che tengono nel mirino gas, petrolio e milizie utili alla detenzione dei migranti, ma non certo il benessere della popolazione. Queste tragedie hanno molti volti ma soprattutto una vittima, gli ultimi, il popolo, lasciato al suo destino, una moltitudine di essere umani trattati come sudditi privi di valore. 

Nell’immagine: la devastazione a Derna






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