La frontiera dei confini
Non c'è niente di più mutevole di un confine. Non è una linea, non è una cosa, è un dispositivo socialmente costruito per generare un dentro e un fuori
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Non c'è niente di più mutevole di un confine. Non è una linea, non è una cosa, è un dispositivo socialmente costruito per generare un dentro e un fuori
• – Redazione
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• – Redazione
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• – Paolo Di Stefano
Le cifre smentiscono chi alimenta la paura nei confronti dei richiedenti l’asilo (anche nel basso Mendrisiotto)
• – Redazione
Per gli asilanti, sui quali c'è chi strumentalizza, occorre anche accoglienza e socialità, favorendo l'incontro con la popolazione residente. Lunedì visita a Chiasso della consigliera federale Baume-Schneider
• – Aldo Sofia
Quelli che stanno dalla parte di chi pensa che l’emergenza climatica non esiste e che la solidarietà è ormai una parola da anime ingenue, mica da sovranisti, nazionalisti, fascisti, machisti, neoliberisti, tecno-capitalisti, guerrafondai, finanzieri e banchieri
• – Lelio Demichelis
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• – Redazione
Un triste ed inquietante primato degli Stati Uniti
• – Redazione
Due testi di e su Uri Avnery, scrittore e pacifista israeliano
• – Redazione
Non c'è niente di più mutevole di un confine. Non è una linea, non è una cosa, è un dispositivo socialmente costruito per generare un dentro e un fuori
Di Marco D’Eramo, Micromega
[…] In quanto dispositivo socialmente costruito, il confine è sempre l’esito (temporaneo) di un rapporto di forza. E anzi, vi è una misura, quasi disumana nella sua astrattezza, della violenza con cui è stato tracciato il confine, e questa misura è la rettilineità. Dove i confini sono sinuosi, frastagliati, là ogni rientranza, ogni sporgenza racconta una secolare, o millenaria, storia di conflitti, compromessi, accordi, rivalse. Dove invece i confini sono rettilinei, potete essere sicuri che non c’è stato nessun negoziato tra due parti, ma un diktat autocratico è stato esercitato, uno strapotere, un arbitrio di cui la geometria è diretta espressione. Un confine nord-sud quasi rettilineo lo trovate per migliaia di chilometri tra Canada e Usa (anche con l’Alaska a ovest); rette anche tra vari stati degli Stati uniti, soprattutto a Ovest degli Appalachi, dove la storia dei precedenti abitanti fu ignorata, la terra considerata “vergine”, la geografia ordinata con riga e squadra sulle mappe. Le stesse frontiere rettilinee le trovate in Africa dove le potenze coloniali le imposero ai “selvaggi”. Fu sempre con una retta che le potenze coloniali divisero in due Papua Nuova Guinea. Lo stesso “disprezzo della retta” lo leggete in Medio Oriente dove confini tra i futuri stati di Siria e Iraq, e Iraq e Arabia saudita vennero decisi a tavolino da due funzionari, l’inglese Mark Sykes e il francese François-Georges Picot quando nel 1916 furono incaricati di smembrare i futuri assetti del morente impero ottomano.
Ma mentre i confini mutano, appaiono e scompaiono, si fa sempre più ingombrante il confine come istituzione fondante la geopolitica mondiale.
Sembra un paradosso che nell’epoca della globalizzazione, quando la Terra ci appare come un piccolo pianeta azzurro, quando le dimensioni dell’umano agire si moltiplicano sotto i mari, nello spazio, sulle onde dell’etere, proprio allora il problema dei confini sembra diventare più urgente che mai. Anzi, è proprio alla fine degli anni Novanta del secolo scorso e all’inizio di questo secolo, all’apogeo ideologico della globalizzazione, che si configura e consolida una nuova disciplina, i Border Studies che si dota delle sue riviste accademiche, dei suoi congressi e dei suoi padri ispiratori. […]
È quella che Ulrich Beck chiama “globalizzazione dall’interno”, per cui i confini non seguono più i limiti territoriali dello Stato-nazione, ma si moltiplicano e si diversificano, si settorializzano (per esempio in uno stato multietnico, multiculturale o multireligioso, le linee di confine saranno tracciate dall’etnia, dalla cultura, dalla religione e possono non coincidere affatto): “Quando i confini culturali, politici, economici e legali non sono più congruenti, si spalancano contraddizioni tra i vari principi di esclusione. La globalizzazione interna, intesa come plurlizzazione dei confini, produce in altre parole una crisi di legitimazione della moralità nozionale di esclusione”. Perciò, “se il paradigma Stato-nazione delle società va a pezzi dall’interno, lascia spazio alla rinascita e al rinnovo di ogni tipo di movimenti culturali, politici e religiosi. Soprattutto va capito il paradosso etnico della globalizzazione.In un’epoca in cui il mondo si sta avvicinando e diventa più cosmopolita, in cui quindi confini e barriere tra nazioni e gruppi etnici vengono meno, le identità etniche e le divisioni si rafforzano di nuovo”.
È vero che con la rivoluzione dei trasporti appaiono forme inedite di confine. Già gli aeroporti rappresentavano un’anomalia, visto che la frontiera per uscire dal Paese si trova non al bordo del Paese stesso ma al suo interno. Oppure: un confine del Regno Unito si trova al centro di Parigi, alla Gare du Nord da cui parte l’Eurostar e in cui è situato il posto di frontiera britannico. Per la stessa ragione un altro posto di confine inglese si trova nel bel mezzo di Bruxelles. Ed è vero che col confinamento abbiamo assistito alla creazione di nuovi confini temporanei, come quelli che durante la pandemia da Covid-19 impedivano di entrare o uscire da metropoli cinesi anche decine di milioni di abitanti.
Ma fa comunque sorridere la sicumera con cui i più sagaci scienziati sociali dell’epoca davano la globalizzazione per irreversibile e, senza ammetterlo apertamente, si situavano all’interno dell’orizzonte concettuale della “fine della storia” proclamata da Francis Fukuyama, da tutti sfottuto, ma tacitamente condiviso. Proprio mentre costoro proclamavano la “globalizzazione dall’interno”, la definitiva cosmopolitizzazione della società umana, la deglobalizzazione era già lì dietro l’angolo a ripresentarsi con il martellante succedersi di Brexit, elezione di Donald Trump, Covid-19, guerra ucraina, decoupling dalla Cina. E intanto le buone vecchie frontiere di una volta si preparavano a prendersi la rivincita, e nella forma più antica e mitica della storia umana, quella del vallo (di Adriano), quella della Muraglia (cinese). […]
Ma forse il caso che meglio descrive la sofisticazione, anzi la perversione che ha raggiunto il concetto di confine, è quello di Israele. Ecco come Eyal Weizman descrive il piano di pace di Clinton per la partizione di Gerusalemme, elaborato secondo il principio che “ogni parte della città abitata da ebrei sarà israeliana e ogni parte abitata da palestinesi sarà palestinese. In accordo coi principi di divisione di Clinton, 64 km di muro dovevano frammentare la città in due arcipelaghi tracciati secondo linee nazionali. Quaranta ponti e tunnel dovevano connettere queste aree-enclaves isolate tra loro. Il principio di Clinton significava anche che qualche edificio nella Città Vecchia sarebbe stato diviso verticalmente tra i due Stati, con il piano terra e lo scantinato in cui si entrava dal quartiere musulmano e usato dai bottegai palestinesi, e i piani superiori a cui si accedeva dal quartiere ebreo, usato da ebrei membri dello stato israeliano.” Insomma la soluzione proposta era quella degli aeroporti, in cui l’area Arrivi e quella Partenze sono situate in due piani differenti non comunicanti tra di loro, ognuno con la sua entrata e uscita. Quindi il confine non come linea in un piano bidimensionale (una carta geografica), bensì come separazione in uno spazio tridimensionale, ma su una scala di complicazione labirintica.
Però dove la creatività umana si è sbizzarrita nella sua più immaginosa estrosità è nella costruzione del muro (730 km) iniziato nel 2002 che separa gli insediamenti ebraici dalle terre palestinesi: Weizmann dedica a questo muro e alle sue conseguenze un capitolo del suo bellissimo Hollow Land. Poiché le due parti al di qua e al di là del muro devono comunque interagire, il problema per i pianificatori israeliani è come garantire insieme l’interazione e l’isolamento, per esempio in un’autostrada che deve servire sia israeliani che palestinesi. Ecco la soluzione: “La strada è divisa al centro da un’alto muro in cemento, che sepra le corsie israeliane da quelle palestinesi. Si estende per tre ponti e tre tunnel prima di finire in un complesso nodo volumetrico che si aggroviglia a mezz’aria, incanalando separatamente israeliani e palestinesi lungo differenti soprelevate a spirale che sbucano e atterrano nei rispettivi lati del Muro. È emerso un nuovo modo di immaginare lo spazio. Dopo aver frammentato la superficie della West Bank con muri e altre barriere, i pianificatori israeliani hanno cominciato a tesserle insieme come due geografie nazionali separate ma sovrapposte; due reti territoriali che si sovrappongono sulla stessa area in tre dimensioni, senza mai dover incrociarsi o venire a contatto.”
Di fronte a tanta perversione intellettuale, dobbiamo tornare a colui che, recintando un terreno, dicendo “questo è mio”, facendosi credere dai semplici, fondò la società civile, e leggere la reazione di Rousseau a quest’atto fondativo:
“Quanti crimini, orrori, quante morti, guerre e miserie avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando la palizzata, o riempiendo il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Non ascoltate quest’impostore: siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno.”
Nell’immagine: confini?
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