In una storia ormai quarantennale (il movimento nacque nel 1982, dopo il primo sconfinamento militare di Israele in Libano), i dirigenti di Hezbollah si sono costruiti la fama di politici e combattenti tutt’altro che sprovveduti. Abili politicamente, e militarmente capaci. Così hanno saputo mettere in difficoltà il nemico dichiarato, lo Stato ebraico, in più di un’occasione. Soprattutto con la vittoriosa resistenza del 2006, anno di una delle ultime invasioni militari del territorio libanese da parte dell’esercito dello Stato ebraico. Smacco che più tardi contribuì alla disgrazia politica dell’allora premier ed ex sindaco di Gerusalemme, Ehud Olmert. E fu soprattutto quella resistenza ad ispirare lo straordinario e sconvolgente film “
Lebanon”, di Samuel Maoz, storia di quattro soldati israeliani tutta raccontata dall’interno del loro carro armato smarritosi nell’avanzata.
Non sorprende dunque che, nell’atteso discorso di ieri, Hassan Nasrallah, ormai da tre decenni alla guida del “Partito di Dio” libanese, abbia offerto un’ altra dimostrazione di equilibrismo: sul canale televisivo Al Manar (che appartiene ai jihadisti) e da una località tenuta segreta, ha sì addobbato di focosa e roboante retorica il suo atteso intervento (soprattutto anti-americano) per dire comunque in sostanza che Hezbollah approva e sostiene Hamas nella guerra di Gaza, ma che in sostanza non intende (almeno per ora) parteciparvi attivamente, continuando nella sua tattica di sporadici e per nulla devastanti lanci di ordigni contro il Nord di Israele. Una prima, buona notizia rispetto al temuto allargamento regionale del conflitto. E, considerato che il rapporto fra Hezbollah e Iran è organico, anche la conferma che nemmeno a Teheran c’è voglia di prendere le armi contro Israele; o di delegare il compito ai fratelli sciiti libanesi.
Prudenza che ha diverse spiegazioni. Nel “Paese dei Cedri” (o “Svizzera del Medio Oriente” come fu definito il Libano per alcuni decenni, con evidente forzatura) il “Partito di Dio” non si sottrae al confronto anche duro con Israele, di cui nega il diritto all’esistenza, in perfetta sintonia con gli ayatollah, e come conferma spesso lanciando razzi oltre la “linea blu” del Nord per colpire il territorio israeliano; ma è riuscito anche a ritagliarsi, dopo aver sconfitto i rivali moderati di Amal, un tassello politico e istituzionale di peso nel mosaico multi-confessionale libanese, che ormai da quasi mezzo secolo (dalla guerra civile del 1975) è costantemente sull’orlo dell’esplosione.
Rappresentato in parlamento, entrato nel governo diversi anni fa con una decina di ministri, in grado di decretarne anche le crisi e le dimissioni, la formazione politico-militare assistita dall’Iran ma anche dalla maggioranza dell’Iraq e dalla Siria del dittatore alauita Bachir El Assad, sa di doversi muovere con cautela, tenendo cioè conto della complessa e frammentata realtà nazionale. Oggi ancor più consapevole delle difficoltà interne. Quali?
Primo: il Libano è uno Stato tecnicamente fallito, la sua economia è disastrata, le casse dello Stato svuotate, la lira libanese ipersvalutata, la disoccupazione giovanile sopra il 60 per cento, la possibilità di spesa media per abitante di un dollaro e mezzo, mentre il 10 per cento della popolazione ha abbandonato il paese.
Secondo: l’inevitabile dura rappresaglia israeliana (con l’eventuale appoggio degli Stati Uniti, già presenti con la loro flotta al largo delle coste libanesi) manderebbe in frantumi quel che resta (assai poco) del fragilissimo puzzle inter-religioso nazionale, riaccendendo gli scontri con la componente cristiana filo israeliana del paese: come tragico pro-memoria basti ricordare la strage nel campo profughi di Sabra e Chatila dell’autunno 1982 da parte delle milizie maronite, con le truppe di invasione israeliane guidate da Ariel Sharon che assediavano Beirut dalle colline della capitale, impassibili per assecondare la carneficina di rifugiati palestinesi (come confermò un’inchiesta ufficiale di Tel Aviv).
Terzo: le milizie Hezbollah hanno attivamente partecipato alla recente, lunga e sanguinosa guerra civile siriana a fianco di El Assad, con un numero di perdite che le hanno obiettivamente indebolite, limitandone le possibilità di reggere all’urto di una controffensiva israeliana.
Poi c’è la spiegazione esogena, cioè esterna. Fondamentale. Perché riguarda appunto l’Iran. Gli ayatollah sanno che da anni il disegno militare dello Stato ebraico è quello di un ‘colpo’ militare preventivo contro il regime della Rivoluzione islamica: per distruggerne le ambizioni nucleari, e per spezzare la “catena” degli alleati di Teheran: dall’Iraq, alla Siria, a Gaza. Sul piano militare, il regno degli ayatollah è un semi-mistero: la brutale liquidazione del generale Suleimani, potente capo dei pasdaran, ucciso durante un soggiorno in Iraq da un missile americano, non è stata certo una dimostrazione di forza. Sul piano politico interno, poi, i successori di Khomeini sono alle prese con la più radicale contestazione della teocrazia da parte dell’opposizione partita dal coraggio delle ragazze e delle donne del movimento democratico, estesasi a buona parte del paese. Conferma di mancata compattezza nazionale che dovrebbe supportare una mobilitazione nazionale. Per molti iraniani, Hamas è associabile al regime islamico che li opprime. Lo testimonia un episodio avvenuto all’indomani della strage dei civili nei kibbutzim israeliani del sud: negli stadi di calcio iraniani in cui gli altoparlanti invitavano a festeggiare l’attacco dei “fratelli di Gaza” sono partiti più fischi di dissenso che calorosi applausi. E non basta certo l’appoggio che al paese viene da Mosca (grande acquirente dei droni di fabbricazione iraniana per la guerra anti-Ucraina) per spingere Teheran a una qualche forma di belligeranza contro un Israele in armi.
Nasrallah, il cui predecessore venne ucciso da un commando israeliano, che si è formato a Qom (la città delle grandi scuole sciite iraniane) e a Najaf (una delle due “città sante” dell’Iraq sciita), e che in tre decenni di potere e di guida di Hezbollah ha affinato intuito e istinto politico, sa che un passo falso potrebbe compromettere non soltanto la sua leadership sul movimento islamista-antisionista, ma la cittadella stessa del potere edificato dal “Partito di Dio”: sorta di Stato nello Stato, con una forza militare comunque ragguardevole nel contesto libanese, beneficiario di un sistema economico semi-autarchico. Del resto, da Teheran a Damasco a Beirut, il primo obiettivo dell’islam politico è da sempre chiaro e costante: non perdere un’oncia del potere acquisito.
Caduta dunque l’Ipotesi di apertura futura di un fronte di guerra al confine settentrionale di Israele, e di un successivo allargamento sul piano regionale. È l’istantanea di oggi. Il futuro, come in tutto in Medio Oriente, vive sempre di incertezze. E di fiammate di irrazionalità. Adattata alla realtà regionale, la nota favola della rana che si lascia convincere dallo scorpione di aiutarlo ad attraversare il fiume, ma che a metà tragitto viene trafitta dal pungiglione avvelenato che li condannerà entrambi, esclama: “Ma non è affatto logico”. Risposta dello scorpione: “E chi ti ha raccontato che c’è logica in Medio Oriente?”.
Nell’immagine: Il discorso di Hassan Nasrallah trasmesso su maxischermo a Beirut