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La miccia del Kosovo e le ferite della Storia

La rivolta della minoranza serba, i sentimenti pro-russi di Belgrado, e le tragedie mai rimarginate della Storia


Aldo Sofia
Aldo Sofia
La miccia del Kosovo e le ferite della Storia
• 3 Giugno 2023 – Aldo Sofia

C’è uso e uso della memoria, e anche della Storia. Quando non rimane sullo sfondo come lezione o monito, e diventa invece ferita non suturabile, collettivamente ossessiva, può assumere forme di rivendicazione perpetua, revanscista, ipernazionalista. Per esempio, leggere “Migrazioni”, di Milos Crnjanski, capolavoro sui destini individuali e collettivi del popolo serbo vagante in Voivodina, perennemente in attesa del riscatto dalle sopraffazioni subite, irriducibile nel sogno a lungo frustrato della sua “terra promessa”, significa entrare in questo tipo di “memoria eccessiva”. Finora mai risolta e apparentemente irrisolvibile. 

La terra sempre contesa dei Balcani è anche questo. Il regime del maresciallo Tito l’aveva semplicemente congelata, in una coesistenza principalmente proiettata all’indipendenza dall’Urss, anche attraverso il modello politico-economico della “samoupravljanie” (l’autogestione, o socialismo di mercato). La guerra, anzi le guerre fratricide nella Jugoslavia degli anni Ottanta-Novanta, quelle “Maschere per un massacro” magistralmente descritte da Paolo Rumiz sulla grande manipolazione di popolazioni spesso raccolte in famiglie miste, l’avevano tragicamente scongelato, attraverso le terribili “pulizie etniche” (centinaia di migliaia di vittime), riportando in superficie le ferite aperte della Storia e dalla Storia. Nuove nazioni partorite dalla tragedia, Europa (Germania e Vaticano in testa) impegnata a soccorrere la propria parte dei novelli Stati, America e parte degli alleati in soccorso del Kosovo in nome del “diritto umanitario”, e altro “congelamento” con gli Accordi di Dayton del 1995. 

Ventotto anni dopo torna a bruciare la miccia della polveriera Kosovo. Avviene in quel triangolo settentrionale del paese (1,8 milioni di abitanti di cui 100.000 di origine serba; Stato non riconosciuto da buona parte della comunità internazionale) dove la minoranza si sente minacciata e discriminata, dove i monasteri ortodossi costituiscono plasticamente il simbolo di un territorio considerato la culla della cultura serba, nonché di quella lontana “Battaglia della piana dei Merli” (1389), conclusasi con la vittoria della Turchia musulmana e la sottomissione della locale cristianità: sarebbe durata oltre due secoli, fino al fallito assedio di Vienna da parte della potenza ottomana. 

Ora è bastata l’iniziale “battaglia delle targhe” e dei passaporti (decisione di Pristina di imporre in entrambi i casi quelli kosovari) per infiammare animi già surriscaldati, per scivolare velocemente nella “guerra dei municipi”, elezioni boicottate per protesta dalla comunità serba (a cui Pristina ha negato le Comunità municipali previste dagli accordi), per finire con gli scontri violenti in cui sono stati bersagliati i militari della Kfor (forza di interposizione Nato) e con la decisione di Belgrado di spostare truppe al confine sud.  Scatta finalmente l’allarme del garante Occidente, dopo anni di disattenzione, alimentata dall’emergenza ucraina. Un Occidente (che ora chiede al premier super-nazionalista kosovaro Albin Kurti di riorganizzare il voto) già preoccupato dal profondo sentimento pro-Putin che attraversa le terre serbe, legate storicamente, economicamente (anche se in modo parziale), e nella fede religiosa ortodossa alla Russia, che cercò inutilmente di contrastare la politica americana nel finale della guerra jugoslava, con una orgogliosa ma effimera parata militare in loco. Si aggiungano, per cogliere tutta la tensione di questa fase, i serbi della Bosnia Erzegovina, la cui leadership esprime con insistenza e rabbia la voglia di secessione dalla federazione di Bosnia-Erzegovina (generata dall’intesa di Dayton), per farsi inglobare nella “madre-patria Serbia”. 

Ma in tutto questo non c’è solo la Russia, sospettata di soffiare sul fuoco di una crisi che le fa gioco. C’è anche la Cina di Xi Jinping, sua “alleata senza limiti”, che nei Balcani occidentali sta facendo “shopping”, con una penetrazione economica sempre più vistosa. Nel periodo tra il 2009 e il 2021 (la pandemia da Covid ha rallentato il processo), nei sei paesi della regione non membri dell’UE (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia) il governo di Pechino ha investito oltre 32 miliardi di euro, 10,3 miliardi nella sola Serbia. E relativo scambio di reciproco sostegno politico: la Cina con il puntuale sostegno delle rivendicazioni di Belgrado sul Kosovo (in difesa e protezione della minoranza serba), e la Serbia appoggiando la “politica unitaria” della Cina su Taiwan, Hong Kong, Tibet e Xinjiang.

Il tutto nel segno di una ambiguità e di un equilibrismo che nella polveriera regionale potrebbero comunque frantumarsi velocemente. Nonostante il filo-putinismo e l’afflusso di capitali cinesi, l’Europa comunitaria rimane infatti il principale partner economico, con il 70 per cento degli investimenti esteri totali, e l’81 per cento delle importazioni. Né Belgrado ha rinunciato a candidarsi all’entrata nell’UE. È il doppio binario, la doppia anima (o il doppio gioco?) di una regione ancora e sempre esplosiva. Entrata, volente o no, nel grande gioco in corso. Quello globale.

Nell’immagine: il primo ministro del Kosovo Albin Kurti






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