L’assedio dei coloni: in Cisgiordania gli uliveti palestinesi sono circondati dai soldati, vietato raccogliere le olive
I contadini vivono segregati, coltivare la terra è proibito e gli insediamenti si espandono
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I contadini vivono segregati, coltivare la terra è proibito e gli insediamenti si espandono
• – Redazione
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• – Redazione
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le nuove vittime palestinesi anche nel sud di Gaza, le critiche a Netanyahu per la fine della tregua, e un attentato che ricorda quanto esplosiva sia anche la tensione nei Territori occupati
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Il Comitato Internazionale Olimpico non ha cambiato né pelo, né vizio: vince chi garantisce il maggior incasso e perciò la nostra candidatura per i Giochi invernali del 2030 non verrà presa in considerazione
• – Libano Zanolari
È scomparso a Martigny, all’età di 88 anni, uno dei grandi promotori culturali svizzeri degli ultimi decenni. Sua la Fondazione che ha ospitato mostre di straordinaria qualità e di enorme successo
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I dubbi sull’intesa firmata alla Cop28. Per costruire le centrali ci vogliono decenni: per restare entro gli 1,5 gradi di riscaldamento dovremmo tagliare le emissioni del 42% da qui al 2030
• – Redazione
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• – Beat Allenbach
L’amaca di sabato 2 dicembre 2023
• – Redazione
Fa discutere il kolossal biografico “Napoleon”, nelle sale da qualche giorno, per la sua scarsa adesione ai fatti storicamente accertati
• – Pietro Montorfani
I contadini vivono segregati, coltivare la terra è proibito e gli insediamenti si espandono
HEBRON. Il 13 ottobre scorso Zakaria al-Arda, un operaio edile di Al-Tuwani, una piccola cittadina a Sud di Hebron, camminava lungo la strada che attraversa la collina dopo la preghiera del venerdì per tornare a casa.
Ma a casa non è mai arrivato perché un colono di Havat Ma’on, un avamposto al confine con Al-Tuwani illegale per il Diritto Internazionale delle Nazioni Unite, ma anche per la stessa legge israeliana, è sceso dalla collina imbracciando il suo fucile. Prima ha colpito a calci Zakaria, ma quando l’uomo ha cercato di difendersi, il colono gli ha sparato. Il proiettile ha perforato lo stomaco, pochi centimetri sotto i polmoni. Da allora Zakaria è in ospedale, in terapia intensiva. Un video di quei momenti mostra chiaramente che né Zakaria, né gli altri fedeli che avevano lasciato la moschea avessero un’arma.
Suo cugino Hafez Hureini vive ancora lì. È un contadino, casa loro sulla salita della cittadina, è circondata da ulivi e da soldati israeliani. Sul pino all’estremità della sua proprietà i coloni hanno piantato una bandiera israeliana. Oggi Hafez vive, come tutti, da segregato. Non può lavorare nella sua serra, non può seminare i suoi terreni. Non può raccogliere le olive.
«È per la sicurezza, ci dicono, ma noi non abbiamo fatto nulla di male, non abbiamo minacciato nessuno. Di che sicurezza parlano, la sicurezza di chi? Noi siamo disarmati, loro sono armati. Noi viviamo sulla nostra terra, loro vogliono che andiamo via. Loro sono difesi dall’esercito, noi siamo ignorati». Hafez ha paura di camminare sulla sua terra, la poca che resta alla sua famiglia che prima del 1967 ne possedeva migliaia di ettari. Hafez non vuole niente indietro. Non vuole armi per difendersi. Vorrebbe vivere in pace, libero, su quello che gli resta. Oggi però vive un’esistenza da recluso. Guarda i soldati che presidiano le colline, i soldati lo guardano armati. Le olive che avrebbe dovuto raccogliere sono marcite sotto gli alberi. Dice che questa è violenza. Privare decine di comunità di agricoltori non solo di qualcosa che dà loro da vivere, ma di condividere un momento, quello del raccolto, che è un gesto intimo, privato, che segna il legame dei palestinesi con la loro terra.
«Gli ulivi rappresentano quello che resta, anche se ci cacciano, ogni volta che ci cacciano. Possono vietarci di curarli, bruciarli come stanno facendo. Ma le radici degli ulivi sono qui, come le nostre».
Le olive sono il prodotto più importante della Cisgiordania, e anche quest’anno, secondo Abbas Milhem, dell’Unione degli agricoltori palestinesi, avrebbero fruttato settanta milioni di dollari, ma il raccolto è stato vietato quasi ovunque, con conseguenze drammatiche per centomila agricoltori che vivono del frutto della loro terra.
Negli anni passati, la raccolta delle olive era coordinata dalle autorità palestinesi locali e dall’esercito israeliano. Gli accordi prevedevano un calendario di date specifiche in cui i coltivatori palestinesi potevano raggiungere i loro terreni, raccogliere le olive e lavorare la terra. In molte delle comunità a Sud di Hebron, le date per consentire il lavoro di quest’anno erano state calendarizzate pochi giorni prima dell’attacco del 7 ottobre. Attacco che ha cambiato tutto. Da allora tutte le richieste di permesso sono state respinte. Alcuni degli agricoltori che hanno provato a raggiungere comunque le loro coltivazioni sono stati attaccati dai coloni. Gli altri sono rimasti senza lavoro.
Yesh Din, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, nelle ultime settimane ha documentato 99 attacchi dei coloni contro gli agricoltori palestinesi. Lo scorso anno erano stati 38. In 18 casi, secondo l’organizzazione, sono stati gli stessi soldati a impedire il raccolto, un contadino è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un soldato in congedo, che è stato subito rilasciato e ha ripreso il servizio pochi giorni dopo.
I mancati raccolti sono un altro tassello della tensione della Cisgiordania. Esasperata nelle ultime settimane, dopo l’inizio della guerra, ma in atto da anni e cresciuta nei mesi del governo di estrema destra di Netanyahu.
All’inizio del mese scorso, Netanyahu, che alimentato l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania nei suoi lunghi anni di leadership, ha condannato la violenza dei coloni, dicendo che un «manipolo di estremisti» stava danneggiando la reputazione del Paese, eppure è stato proprio uno dei suoi ministri più controversi, Bezalel Smotrich, appoggiato dalle comunità dei coloni, a condurre una campagna per impedire il raccolto con il pretesto della sicurezza. In una lettera allo stesso Netanyahu, Smotrich ha chiesto pubblicamente di vietare ai palestinesi di raccogliere olive vicino agli insediamenti in Cisgiordania, invitando il governo a «creare aree di sicurezza sterili intorno alle comunità e alle strade per impedire agli arabi di entrarvi».
L’eco del progetto di Smotrich è arrivata velocemente nei gruppi WhatsApp di estrema destra. Il quotidiano israeliano Hareetz una decina di giorni fa, riportava un messaggio di uno di questi gruppi: «Attenzione, questo non è un raccolto, questo è il prossimo omicidio. Sulla strada 505, 200 metri a Est dello svincolo di Migdalim, i “raccoglitori” sono a pochi metri dalla strada».
Al messaggio era allegata una localizzazione che forniva il luogo esatto in cui gli estremisti di destra credevano di aver avvistato i palestinesi a raccogliere le olive.
L’impunità verso le azioni dei coloni ha spinto anche il presidente statunitense Biden, lo scorso ottobre, a dichiarare che gli Stati Uniti stavano valutando la possibilità di vietare il visto ai coloni violenti e giovedì scorso, durante l’ultimo incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme, anche il segretario di Stato Antony Blinken è tornato a chiedere misure urgenti per arginare la violenza dei coloni estremisti, che hanno un obiettivo chiaro cioè espellere i residenti palestinesi dalla Cisgiordania, spingendo per l’annessione formale a Israele. L’ala più radicale di questi gruppi, il movimento noto come “La gioventù della collina”, pensa che sia loro diritto essere in Cisgiordania, che a nessun altro spetti questa terra, che quindi i palestinesi devono lasciarla. Con le buone o con le cattive
Mohamed Abdelrahman Al Jabareem ha 49 anni, è un agricoltore. Anche lui vive nel villaggio di She’b Al-Batem. O meglio viveva, finché non ha visto un nuovo avamposto israeliano sulla collina di fronte casa sua e sono iniziati i problemi. Una notte il colono che lo abita ha camminato dalla cima della collina a casa sua e ha distrutto i tubi per l’irrigazione. Mohamed lo ha cacciato, ma una settimana dopo è tornato e ha distrutto il serbatoio dell’acqua. Chiamare la polizia non è servito a nulla, se non a istigare ancora più rabbia. Cinque giorni dopo il colono è arrivato armato e accompagnato da altre quattro persone che hanno picchiato Mohamed rompendogli tre costole. Prima di andare via hanno detto: «Se torniamo e vi troviamo ancora qui, uccidiamo tutti».
Così Mohamed ha portato via la moglie e i figli e come in molte altre comunità agricole palestinesi della zona ha cominciato a fare i turni di guardia, che però non sono bastati. Due settimane fa il gruppo di coloni è tornato con un bulldozer e gli ha buttato giù casa.
Oggi Mohamed è senza acqua e quindi senza lavoro. Delle sue piante non resta niente. È lontano dalla sua famiglia che vive al sicuro intorno a Ramallah. Ma non riesce a dire che sia senza casa. Per questo ogni giorno cammina sul terreno ruvido delle colline di Hebron, tra le pietre e i sassi che pare ricordare a memoria, e mette in ordine quello che resta. Si affaccia alla finestra senza più vetri e guarda il colono, dall’altra parte della collina, vivere nel suo container rosso, accanto al serbatoio dell’acqua, nell’avamposto che è il passo che precede un nuovo insediamento. «Gli resta da togliermi questo fazzoletto di terra ridotto in macerie. Ma è la mia, e non me ne andrò».
Nell’immagine: coloni israeliani minacciano (e poi aggrediscono) il proprietario palestinese di un uliveto
Icona dolente di un’umanità che ha rinunciato alla presunzione di onnipotenza, si ritrova a contemplare la propria vulnerabilità e la propria decadenza
Dobbiamo concepire i comportamenti sostenibili non più come rinunce ma unicamente come guadagno