“Tu che sei uno storico, vai a vedere
Napoleon così mi dici quanti errori ci sono”. E a cose fatte: “Allora questa verità storica? La solita americanata vero?”. Più penso a questa pantomima, cui ho assistito più volte negli scorsi giorni, più mi convinco che è l’impostazione stessa della questione ad essere sbagliata. Primo perché, a voler essere pignoli, lo spettatore ideale sarebbe allora soltanto lo storico dell’epoca napoleonica, o quantomeno un Alessandro Barbero che, da grande esperto di Austerlitz e Waterloo, so per certo che si asterrà dalla visione del film, se non altro per non prendere rabbia. Gli altri, me compreso, sono più o meno tutti sullo stesso piano.
Su che “piano” stiamo allora? La risposta a questa domanda, solo apparentemente semplice e banale, equivale a ribadire quale idea di cinema siamo disposti ad accettare nel 2023, e quale no. Assediati dall’ansia del fact checking, delle fake news e dell’intelligenza artificiale onnipresente, cerchiamo in ogni lungometraggio di finzione un documentario di Rai Scuola, dimenticando quale potente meccanismo sia la fiction, e quali “diritti” abbia una scelta autoriale forte, discutibile ma forte, come quella di Ridley Scott. Ammetto di avere da anni un personalissimo contenzioso, tutto interno alla calotta del mio pensiero, con questo regista britannico diventato americano come pochi, di cui ho adorato I duellanti, Alien, Blade Runner, American Gangster e persino Il gladiatore, e odiato Robin Hood, Le crociate, 1492 ed Exodus. Il fatto di non riuscire a mettere Napoleon a colpo sicuro in uno di questi due gruppi, la dice lunga su quale prodotto ibrido sia la sua versione cinematografica della vita del celebre Còrso.
Il film è lungo, dilatato nei ritmi e concepito su cesure estreme: dentro e fuori la vita privata del generale che divenne console, e del console che divenne imperatore, senza smettere mai di essere quello che in fondo era, un militare dal fiuto geniale. Che si passi dalle gonne di Giuseppina di Beauharnais ai campi di battaglia di mezza Europa senza soluzione di continuità è l’aspetto che sembra avere disturbato maggiormente gli spettatori più raffinati. “Pare un Barry Lyndon incrociato con Benny Hill”, ho letto sui social nei primi giorni di proiezione, e la provocazione è intelligente: in Napoleon c’è in effetti qualcosa di Kubrick, per la cura maniacale delle scene, delle luci, degli abiti, e qualcosa dell’umorismo pecoreccio di certa “cultura” del secolo scorso, ante political correctness. A costo di andare forzatamente controcorrente, credo che questo contrasto sia invece tra le cose più riuscite del film, perché afferma in un sol tempo due snodi cruciali della parabola storica di Bonaparte: la sua ambizione smisurata, rigorosa e ideologica, e il suo essere ancora un uomo del Settecento, cioè di corte, di balli, di musiche lievi, di estetismo esasperato, qualcosa che la Rivoluzione francese impiegò molto tempo a mandare definitivamente in pensione. Sta in questa altalena tra due estremi tutto lo scarto tra un Napoleone e un Robespierre, che incarnava soltanto il primo polo. Forse, sembra suggerire Ridley Scott tra le righe, ci voleva una figura ancipite come Napoleone per traghettare il mondo nella nuova era. Un rivoluzionario puro, senza contraddizioni e senza un privato evidente ed invadente (un Lenin, per dire) non sarebbe stato adatto allo scopo, in un’epoca in cui si volevano ancora i re.
Suggerisco allora una possibile modalità di visione del film: con le orecchie, prima che con gli occhi, per apprezzare la sapienza con cui sono state montate le musiche, e soprattutto il costante ritorno di alcuni leitmotiv particolarmente azzeccati, come un Kyrie cantato di tradizione còrsa che una volta accompagna una grande vittoria, una volta un’incomprensibile sconfitta e una volta ancora uno stacchetto erotico con Giuseppina, cambiando ogni volta di segno. Basterebbe ricordare che Napoleone fu, prima che un uomo del suo tempo, un vero e proprio Mito (rileggere il 5 maggio di Manzoni per sincerarsene), cioè un personaggio che da solo autorizza la creazione di innumerevoli versioni di sé, quasi degli isotopi dell’originale, non diversamente da come avviene per i fantasiosi Ulisse, Enea, Ettore e Patroclo, o per gli storici Cesare, Alessandro Magno e Genghis Khan. Che poi l’originale, cioè quello storicamente attestato, si allontani sempre di più sullo sfondo, fin quasi a sbiadire, è una preoccupazione forse soltanto nostra, non più capaci di ragionare in termini di miti, e sempre più assillati dalla verità dei fatti. Lasciateci divertire!
Nell’immagine: un Napoleone dilatato