Léonard Gianadda: “Posso morire in pace”
È scomparso a Martigny, all’età di 88 anni, uno dei grandi promotori culturali svizzeri degli ultimi decenni. Sua la Fondazione che ha ospitato mostre di straordinaria qualità e di enorme successo
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È scomparso a Martigny, all’età di 88 anni, uno dei grandi promotori culturali svizzeri degli ultimi decenni. Sua la Fondazione che ha ospitato mostre di straordinaria qualità e di enorme successo
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Quella di Gianadda è una storia che comincia doverosamente con la vicenda migratoria del nonno, che dal Piemonte, a piedi, passò prima in Francia, come operaio e muratore, tornò a casa per sposarsi e per ripartire con la moglie verso la Svizzera, stabilendosi in Vallese. Un’origine italiana che per il nipote, Léonard, anche dopo decenni ed un’acquisita cittadinanza svizzera (con tanto di stemma di famiglia in una sala pubblica) continuerà a segnare la propria natura, di “meticcio”, di lavoratore integrato e progressivamente professionista ed imprenditore immobiliare di successo, che mai ha dimenticato da dove veniva, mai ha nascosto come questo percorso che gli aveva dato un nuovo e riconosciuto statuto, fosse comunque intimamente legato a quella specifica storia famigliare, a quell’esperienza migratoria.
Léonard Gianadda, nato nel 1935, nella sua vita ha fatto, si può dire, di tutto: dal muratore al fotografo, dal giornalista televisivo all’ingegnere, dall’imprenditore fino al fondatore di una straordinaria impresa culturale qual è stata, a partire dal 1978, la Fondation Pierre Gianadda di Martigny, bellissima sede espositiva (e di concerti) intitolata al fratello Pierre, scomparso tragicamente due anni prima in un incidente aereo in Italia.
L’attività di promotore di esposizioni d’arte ha coronato la sua naturale propensione per l’immagine, che come fotografo gli aveva già permesso di incontrare personaggi importanti (da lui immortalati, come ad esempio Georges Simenon) e ne ha ha fatto uno dei maggiori mecenati artistici internazionali degli ultimi 50 anni.
Nella sede della sua fondazione, fra aree verdi, sculture di artisti contemporanei e resti romani, trattati tutti con la massima cura, ha ospitato mostre e retrospettive di grandissimo richiamo, capaci di attirare mediamente a Martigny fino a 250.000 visitatori all’anno: si pensi ad esposizioni dedicate a nomi come Van Gogh, Cézanne, Picasso, Toulouse-Lautrec, Matisse, Giacometti, e tanti altri. Il suo enorme patrimonio (frutto di una fortunata ed oculata gestione dell’attività immobiliare) gli ha permesso di assumersi direttamente molti dei costi stratosferici legati all’organizzazione di mostre di tale livello, senza però fargli mai dimenticare di mettersi a disposizione per iniziative filantropiche di vario genere.
Léonard Gianadda, era da diversi anni malato di cancro alle ossa, e da qualche tempo rifletteva, non senza un certo contradditorio tormento travestito da autoironia, sulla necessità di considerare il suo gioiello, la fondazione, come qualcosa che andasse consegnato a chi ne avrebbe raccolto l’eredità.
Dopo aver donato gran parte del suo patrimonio a una fondazione culturale e benefica perché “non ha senso morire ricchi”, il mecenate di Martigny aveva raccontato, nel 2018, le sue passioni e i suoi rimpianti in un’intervista molto sincera, com’era nel suo stile, al settimanale romando L’Illustré (cui da giovane, aveva anche collaborato come fotografo). È un’intervista che fra luci e ombre spiega forse più di molti discorsi di circostanza chi era Léonard Gianadda. La riproponiamo qui in traduzione italiana, a cura della redazione.
Da L’Illustré
Signor Gianadda, i suoi standard esigenti, i suoi sfoghi e le sue esternazioni sono leggendari, ma la gente dice che si è addolcito. Un anno fa, ad esempio, non avrebbe mai accettato di fare questa intervista. È vero?
Se lo dice lei (ride). Con l’età arriva la saggezza, come dice il proverbio. Ma credo che sia soprattutto il fatto di aver sistemato i miei affari a tranquillizzarmi. Quando non hai più nulla, ti senti più leggero, più sereno.
Lei ha persino firmato la cosiddetta “pace dei coraggiosi” con Pascal Couchepin, il suo miglior nemico quando era sindaco della città. In effetti, la settimana scorsa il “Nouvelliste” ha speso per lei parole di elogio…
Oh, sa, c’è più leggenda che verità in questa storia. All’epoca lui faceva il suo lavoro e io il mio. Quindi i nostri interessi erano talvolta divergenti. I nostri scontri divertivano la galleria, ma in fondo ci siamo sempre piaciuti e rispettati. E pensi un po’, non molto tempo fa, mi ha invitato a cena. Abbiamo trascorso insieme alcune ore molto piacevoli.
Chiariamo subito un punto. Lei dice “non ho più nulla”. Eppure la fondazione a cui ha lasciato in eredità tutti i suoi beni porta il suo nome (Léonard Gianadda Mécénat). Non capiamo bene. Lei non è un senzatetto, vero?
Senta, possiedo ancora un quadro di Chagall che mi ha regalato sua figlia e uno di Schiele, valutato 1,5 milioni di franchi. Durante la mia vita, inoltre, conservo l’usufrutto del mio appartamento e la rendita di alcuni edifici, il che mi permette di farmi qualche altra risata. È tutto qui.
Con un patrimonio stimato in 100 milioni di franchi, anche il futuro della Fondation Pierre Gianadda (FPG) sembra assicurato…
Ma non così rapidamente. In cosa consiste questo capitale? Il terreno, il parco di sculture, il valore stimato delle sculture (una cinquantina), il museo, i punti di ristoro e un po’ di contanti. Ma i contanti si spendono in fretta, si sa. Non sono sicuro che i miei successori guarderanno al prezzo dei francobolli come faccio io.
Ciò che preoccupa la gente è che lei non abbia un successore. Claude Nobs ha formato Mathieu Jaton per succedergli alla guida del Montreux Jazz Festival, per esempio. Lei, in quarant’anni, non ha ancora trovato il suo Mathieu Jaton?
No, non l’ho trovato. Per la semplice ragione che non l’ho cercato. Sono più veloce a spiegarmi le cose da solo. E poi, con tutto il rispetto per il Festival di Montreux, non credo che le due istituzioni siano paragonabili.
Perché?
Organizzare concerti è diverso. Lo so per esperienza, ne abbiamo organizzati centinaia. Si firma un contratto con un cantante o un’orchestra, che il più delle volte sono molto richiesti, si esibiscono il giorno stesso, si paga e basta. Per le mostre è un altro paio di maniche. Non solo siamo gli organizzatori, ma dobbiamo anche trovare le opere e ottenere la fiducia e il consenso del loro prestatore prima di poterle utilizzare. È una battaglia corpo a corpo per ognuna di esse, una trattativa che va moltiplicata per cento. E non parlo nemmeno degli aspetti finanziari…
Che cosa significa?
In altre parole, se durante una mostra si verifica un problema grave, qualcuno deve coprire la perdita o deve essere in grado di farlo. Questo è il ruolo che ricopro dal 1978. Si capisce perché non basta trovare una persona super competente e capace di organizzare una grande mostra.
Vado dritto al sodo: qual è il budget annuale della FPG?
Il budget operativo è di circa 400.000 franchi svizzeri, ripartito in parti uguali tra Comune e Cantone, mentre il budget per gli eventi, di nostra competenza, si aggira intorno ai 6 milioni di franchi svizzeri. Tolte le entrate fisse, il mio compito è quello di portare a casa circa 4 milioni di franchi tra ingressi, punti di ristoro, abbonamenti, merchandising, ecc.
In altre parole, possiamo legittimamente preoccuparci delle mostre del dopo Léonard Gianadda?
È possibile. Se non ci sono più grandi eventi che invoglino la gente a venire, l’affluenza diminuirà. Il parco delle sculture, il museo dell’automobile e il museo gallo-romano sopravviveranno, ma il numero di visitatori non sarà sufficiente a finanziare grandi mostre. E con il numero di visitatori giovani che diminuisce di anno in anno, le cose si complicano ulteriormente. Se può consolarvi, potete dirmi che i giovani invecchiano, ma a 85 anni non ho più tempo per aspettare. Credo che i tempi della mostra di Van Gogh, con quasi 500.000 visitatori, siano tristemente finiti.
Non le viene il magone quando parla di questo declino quasi programmato?
No. È così che vanno le cose, è la vita. Ho approfittato di quello che c’era finché c’era. La fondazione ha portato 10 milioni di persone a Martigny. Non è male, vero? Ad essere sincero, sono più legato alla Fondation Annette et Léonard, che aveva uno scopo sociale, che alla fondazione culturale di oggi. Le sue 169 case aiutano le persone con un reddito modesto o in difficoltà economiche e ogni anno distribuisce quasi 500.000 franchi sotto forma di sostegno a progetti o di aiuti una tantum.
I suoi due figli, di 53 e 56 anni, non sono motivati a succederle?
Non sono pazzi. Si rendono conto del lavoro da fare. Alla mia età, sono in ufficio giorno e notte. Non mi lamento, mi piace. Ma vogliono vivere più tranquillamente.
Non è straziante?
Non lo è affatto. Rispetto la loro scelta.
Ha avuto modo di condividere con loro la sua passione?
Sono venuti con me alcune volte. Non li ho mai costretti. Non si può obbligare qualcuno a fare questo lavoro. Non è un’attività che si può prendere in mano o delegare. Si guadagnano da vivere con il loro lavoro, sono interessati all’arte e alle mostre, ma non a ciò che avviene dietro le quinte e al lavoro che vi si svolge.
Lei dice: “Non li ho visti crescere e loro non hanno visto me invecchiare. È difficile vivere con questo tipo di rimpianto…
Non è un rimpianto. È il mio rimpianto. Ci siamo mancati a vicenda e non è facile convivere con questo. Soprattutto con la mia parte italiana. Non avrei mai immaginato che questo potesse accadere a me.
Ha riprodotto l’educazione ricevuta da suo padre?
In parte, senza dubbio. La differenza è che noi andavamo regolarmente in vacanza con la famiglia, mentre questo non faceva parte del vocabolario di mio padre. Non ha nemmeno visto i suoi figli crescere. Lavoro, appuntamenti, era sempre lontano. Era così e basta. Era normale.
Si dice che non si può delegare, che non ci si può fidare. La base sei tu e solo tu. Fino al punto di mettersi in scena per gli spot televisivi…
È un’esagerazione. Mi fido delle persone. E delego sempre di più. Ma controllo tutto. È il mio carattere. Preferisco fare che spiegare. Forse non è il modo giusto, ma funziona.
O forse lei ha un grande bisogno di riconoscimento?
Forse sì. Mi piace, è vero. Credo che piaccia a tutti. È bello essere apprezzati, vedere che il proprio lavoro dà felicità, che viene riconosciuto. Non lo trovo anormale.
Alcuni filantropi fanno donazioni anonime, ma lei no…
Ognuno fa come vuole. Ci sono anche quelli che non ne parlano perché in effetti non danno nulla. A volte, sa, le cose si realizzano senza che servano squilli di tromba. Certo, quando la città di Martigny costruisce un centro funerario da 2 milioni di franchi e i soldi non escono dalle sue casse, è difficile nascondere che si ha fornito un certo contributo…
Lei evoca spesso il ricordo di sua moglie Annette, morta nel 2011. Sempre con grande tenerezza, emozione, persino dolore…
Questo è l’altro mio grande rimpianto. Nel turbine della vita, non mi sono reso conto dei sacrifici che ha fatto per me, per la famiglia. Non ho apprezzato il suo sostegno, la sua sensibilità, i suoi consigli e la sua discrezione. Ma non si può recuperare il tempo perduto. Non ho fatto tutto bene. E questo è un eufemismo.
Lei ha recentemente confidato di aver distribuito 110 milioni di franchi a decine di progetti locali, a società culturali e sportive, a ristrutturazioni di chiese e ad altre opere di beneficenza. Ha dato molto agli altri?
Certamente. Da un lato sono felice di aver potuto condividere parte di quel che ho con tante persone e istituzioni, ma dall’altro l’aver privato troppo spesso la mia gente di amore e tempo mi rende infelice. È un calvario quotidiano.
Lei dice che questi rimpianti la fanno sprofondare in una solitudine da cui non vuole uscire…
È vero. Mi concedo la solitudine. Qualche giorno fa, un’associazione mi ha invitato a diventare membro onorario. Me ne sono andato dieci minuti dopo la cerimonia, anche se era una cerimonia amichevole. Non mi sentivo a mio agio, non so perché. Al di fuori della fondazione, non vedo molte persone.
Lei parla apertamente del suo cancro e delle sue sedute di chemioterapia. Di cosa soffre esattamente?
Non ne parlo.
Cosa possiamo augurarle, a parte una completa guarigione?
Non desidero nulla. Tutto va bene così com’è. O magari un bell’infarto.
Non vuole più vivere?
Sì, certo. Ma se mi dicessero che domani finirà, non mi dispiacerebbe. Ho vissuto mille vite e ho avuto la fortuna di viverle bene. Quindi ecco…
Si sente in colpa?
Non è la parola giusta. Sono consapevole dei miei errori. Ho lavorato sodo. Molto. Troppo. Ho fatto soldi [la società di gestione che condivideva con il suo socio ha costruito 1406 appartamenti e la fortuna di Léonard Gianadda ha raggiunto i 300 milioni di franchi, ndt]. Non è normale guadagnare così tanto. Una cameriera o una commessa lavorano tanto quanto me e fanno fatica ad arrivare a fine mese. Io sono stato molto fortunato. E quando la vita ti vizia, devi essere grato. Per questo ho dato il massimo.
È molto richiesto?
Molto. Da quando sono uscite le notizie sui miei contributi per progetti locali, le richieste sono esplose. Purtroppo non posso rispondere a tutti. Spero che la gente capisca.
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