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Di Maurizio Delli Santi, MicroMega

Nei territori ucraini occupati dalla Russia si continua a violare il diritto internazionale, ora anche con l’avvio a Mariupol del processo di appello a 23 combattenti del Battaglione Azov già condannati a morte in primo grado. Sul punto è opportuna una “nota a margine”, spiacevole, ma così è. Nonostante la notizia del processo sia stata diffusamente rimbalzata dalle agenzie, mentre scriviamo le pagine web del sito istituzionale della Corte penale internazionale sono ferme al 28 luglio: non recano nemmeno un cenno di un qualsiasi avvertimento o esortazione che sarebbe giusto aspettarsi dall’Ufficio del Prosecutor. Avrebbe fatto bene a ricordare ai giudici del Donbass i princìpi di diritto che nel processo vanno tassativamente osservati, a meno di non incorrere loro stessi in “crimini di guerra”. Sarà che alle ferie agostane hanno diritto tutti, ma probabilmente a un organismo con tali responsabilità si può anche chiedere un onere diverso, almeno di fronte a questi scenari. L’auspicio è che al più presto l’International Criminal Court possa porvi rimedio.

Almeno le Nazioni Unite sono scese in campo con una netta presa di posizione: anche per i militari dell’Azov vanno assicurate le condizioni di un processo equo e la protezione prevista in ogni caso dalle Convenzioni di Ginevra, assicurando in primo luogo un pieno ed effettivo diritto di difesa. La portavoce dell’ufficio diritti umani dell’Onu, Ravina Shamdasani, ha definito «inaccettabile e umiliante» la spettacolarizzazione con cui le autorità del Donetsk stanno presentando il processo. La propaganda parla di un nuovo “processo di Norimberga”, con una campagna mediatica incentrata ancora sul presunto “nazismo” del regime ucraino e delle sue componenti militari come il Battaglione Azov, e sono state divulgate notizie e immagini su poco credibili confessioni che proverebbero il coinvolgimento degli imputati in “atti di terrorismo”. Non basta: l’enfasi che si è voluta dare al processo vede ora l’allestimento dell’aula nel distrutto Teatro Filodrammatico di Mariupol.

Qui giornalisti e fotografi hanno potuto riprendere l’installazione delle gabbie dove saranno reclusi gli imputati, e sono state date indicazioni sulla simbolica circostanza che le gabbie sono state costruite con tondini forgiati dai validi operai russi con il ferro proveniente dall’acciaieria Azovstal, strenuamente difesa per 86 giorni dai combattenti dell’Azov. Per ultimo, la dezinformatsiya degli apparati di sicurezza russi ha provato a far passare per appartenente al Battaglione Azov anche Natalia Vovk, la donna ucraina indicata come autrice o comunque coinvolta nell’attentato che ha ucciso la figlia dell’ideologo Dugin. A prescindere dai dubbi sulle effettive responsabilità dell’attentato, l’indicazione sull’appartenenza di Vovk all’unità speciale è apparsa strumentale al processo e dalle verifiche delle principali agenzie internazionali è risultata infondata.

Ma questioni giuridiche più specifiche pongono in evidenza il grave vulnus con cui ci si accinge a celebrare il processo. Il primo aspetto riguarda l’esercizio della giurisdizione in un territorio che è occupato de facto dalla Federazione Russa, ma da considerarsi sempre sotto la sovranità dell’Ucraina. Le modalità di conduzione del processo non hanno poi osservato gli “standard internazionali” previsti pure nel caso di crimini di guerra come stabilito dalle Convenzioni di Ginevra, anche qualora non fosse riconosciuto lo status di “prigionieri di guerra”. Si tratta in particolare della pubblicità delle udienze, dell’esercizio concreto del diritto alla difesa, e del divieto di interrogatori condotti con violenze e torture. Se poi fosse confermata l’accusa di mercenariato ci sono le previsioni della Convenzione del 1989 che lo escludono per le unità sottoposte comunque alle autorità militari dello Stato, e che prevedono un obbligo di informazione, preventiva e successiva, al segretario generale delle Nazioni Unite e allo Stato di origine degli imputati.

Secondo poi i princìpi generali del diritto, la condanna alla pena di morte, che non è in ogni caso esclusa dalle norme del diritto dei conflitti armati e in particolare dalle stesse Convenzioni di Ginevra, non è commisurata al grado di offensività per il solo fatto del mercenariato o anche per l’ispirarsi a ideologie come il nazismo. In astratto la pena capitale potrebbe configurarsi ove fosse effettivamente accertato il coinvolgimento in atti di terrorismo e crimini di guerra. Sul punto vale però precisare che non risultano documentati i capi d’accusa relativi ai presunti “atti di terrorismo” o altri “crimini di guerra” per i quali effettivamente sarebbe consentito un processo, secondo le richiamate garanzie, a carico dei combattenti da considerarsi altrimenti come “prigionieri di guerra”, come tali tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Le agenzie di stampa hanno riportato indicazioni di fonti filorusse secondo cui alcuni militari dell’Azov avrebbero confessato di essere stati “addestrati a compiere atti di terrorismo”. Ma sul punto, anche se tali ammissioni fossero state fatte, va verificato in quali condizioni sono state rese, e se si tratta di testimonianze circostanziate. Soprattutto tali dichiarazioni richiedono specifici riscontri, atteso che ad esempio non possono considerarsi “atti di terrorismo” o “crimini di guerra” gli atti compiuti esclusivamente contro obiettivi di interesse militare, in quanto sarebbero da considerarsi “legittimi” atti di guerra, come lo sono gli “atti di guerriglia” o di “sabotaggio”, non diretti contro obiettivi civili e popolazione civile.

Quanto poi alla evocazione del Tribunale di Norimberga, si tratta di un’altra scandalosa mistificazione. Il processo contro i criminali nazisti del Terzo Reich, tra cui figuravano principalmente i responsabili dell’Olocausto, fu condotto con ben altre modalità e diversi presupposti giuridici. Non si è mai avuta notizia di torture praticate sugli imputati, il cui diritto alla difesa fu sostenuto in ogni fase del processo, come dimostrano i puntuali resoconti cinematografici dell’epoca. Nessuno fu recluso in gabbie di ferro e tutti gli imputati comparirono liberi sugli scranni, da cui poterono esprimere tutte le loro opinioni e considerazioni. In ogni modo fu tutelata la dignità della persona, e a Göring fu persino consentito di ostentare in aula la propria spavalderia e l’uniforme di maresciallo del Reich.

Ma soprattutto il “tribunale dei vincitori” si basava sul London Agreement, che recava in annesso la Charter of the International Military Tribunal, un accordo internazionale formalmente sottoscritto dalle quattro potenze alleate, Usa, Urss, Regno Unito e Francia, e ratificato da altri 19 Stati. In esso venivano enunciati princìpi di giurisdizione universale tutt’ora validi, e l’imparzialità del processo fu garantita dalla costituzione di un collegio di giudici internazionali espressi dagli “Stati garanti”.

Per il processo di Mariupol non si può certo parlare di “princìpi giuridici” e di “garanti” che possano legittimarlo. Se i “giudici” del Donetsk avessero realmente cognizione di ciò che significa rivestire quel ruolo dovrebbero sospendere il processo. E rinviare le carte alla Corte penale internazionale, unico giudice imparziale che – nonostante qualche défaillance – potrà garantire un processo equo, cui hanno diritto anche i combattenti dell’Azov.

Nell’immagine: le gabbie in costruzione nel teatro di Mariupol






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