Orbán lasci l’UE e i soldi di Bruxelles
Braccio di ferro fra la Comunità e il profeta dell’anti-liberalismo democratico, così affezionato alla cassa europea
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Braccio di ferro fra la Comunità e il profeta dell’anti-liberalismo democratico, così affezionato alla cassa europea
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Braccio di ferro fra la Comunità e il profeta dell’anti-liberalismo democratico, così affezionato alla cassa europea
Sarà la Slovenia il paese che per il prossimo semestre ricoprirà la presidenza dell’Unione Europea. Il suo premier si chiama Janez Janša. Uno sconosciuto fuori patria, che ebbe una breve e infelice notorietà quando inviò a Donald Trump entusiastiche felicitazioni per la sua…rielezione alla casa Bianca, mentre il resto d’Europa commentava la sconfitta del tycoon. Si disse che il leader di Lubiana fosse stato spinto alla clamorosa gaffe dall’affetto nazionale per l’allora first lady Melania, appunto di origine slovena. Piccinerie umane. E miseria politica. Ma, soprattutto, Janez Janša fa parte di quel crinale assai poco, o per nulla europeista, che ha nell’ungherese Viktor Orbán il suo tetragono capofila.
Che – pur rappresentando il minuscolo paese dell’Unione – uno Janša qualsiasi, grazie al principio della rotazione, occupi temporaneamente la carica fin qui avuta da una signora di nome Angela Merkel è il risultato di quella democrazia così svogliatamente applicata dai nazional-populisti del “gruppo Visegrad”. Illiberali per auto-definizione. Il fatto è che per una brutta coincidenza storica, una simile successione alla cancelliera tedesca avvenga proprio nel momento in cui è in atto il più duro scontro fra Bruxelles e il condottiero magiaro Orbán. Simbolicamente, un inquietante segno dei tempi.
E non si tratta ‘soltanto’ della barbarica legge varata a Budapest e che assimila la pedofilia all’omosessualità, altro profondo strappo ungherese allo Stato di diritto. In gioco c’è ben altro. E cioè se sia tollerabile che l’Unione europea rischi di sacrificare i suoi valori, auto-infliggendosi le continue provocazioni di Orbán e soci. Fino a snaturarsi.
Sembrerebbe che, per una volta, europarlamento, Commis-sione e principali nazioni UE abbiano deciso di reagire alle pretese anti-democratiche di chi fa parte del club violandone costantemente i principi.
Non è sempre stato così. E se oggi Budapest, Varsavia, Bratislava e altre capitali ‘ribelli’ dell’Est ritengono di poter sfidare apertamente la ‘casa europea’ è proprio perché troppo a lungo si è tollerato il doppiogiochismo e la sfacciataggine dei populisti europei, sempre prontissimi a incassare i benefici economici dei sussidi europei, e altrettanto tempestivi nel contestare le regole sottoscritte per far parte dell’UE.
Certo, nessuno può ignorare il peso della storia, e s’è trattato di una storia pesante. Per nazioni a lungo e forzatamente aggregate al Patto di Varsavia, non è facile accettare una coabitazione che presuppone anche la rinuncia a parti della propria sovranità nazionale. Una volta, alla domanda se non fosse stato un errore accettare precipitosamente l’adesione dei paesi fuoriusciti dal blocco sovietico, senza le necessarie garanzie di rispetto delle regole, l’allora presidente della Commissione Romano Prodi mi rispose, come sempre serafico: ‘L’Europa ha grande forza persuasiva e di contaminazione democratica’. Chissà come la pensa oggi, mentre il portavoce di Orbán, fedele megafono del grande capo, reagisce alle pressioni di Bruxelles per l’annullamento della legge omotransfobica, definendo l’UE ‘una dittatura, proprio come l’Urss”.
Bisogna essere in chiaro. Se in particolare l’Ungheria si permette quello che si permette, la responsabilità è collettivamente dell’Unione che finora aveva lasciato fare, ma singolarmente soprattutto della Germania: che su suolo magiaro ha forti interessi economici, grandi industrie, bassi salari (per gli standard europei), e lauti profitti. Quindi, bocche cucite. Anche quando, sotto gli occhi di tutti, l’”evangelista dell’anti-liberalismo” faceva cassa grazie ai generosi contributi comunitari (che valgono almeno il 3 per cento del PIL ungherese), trasferendone parti non piccole a famigliari, sodali e compari. Così, papà Orbán è diventato uno dei più benestanti imprenditori del paese, con cantieri edili in gran parte finanziati con sussidi europei. Ma ancor più esemplare è il caso di tale Lorinc Maszatos, ex compagno di scuola del premier, tecnico di impianti di riscaldamento, diventato l’uomo più ricco d’Ungheria, proprietario di banche e alberghi. Come ci è riuscito? Ottenendo lavori pubblici per quasi 900 milioni di euro, il 93 per cento dei quali provenienti dai fondi europei. Quindi una mano sul grande cuore magiaro, e l’altra ben affondata nelle casse dell’UE.
Ora Bruxelles potrebbe finalmente usare anche la leva economica per ridurre il contestatore a più miti consigli, sempre che sia possibile e che non sia un boomerang. In base al piano di “resilienza e rilancio europeo”, all’Ungheria spetterebbero oltre sette miliardi di euro. Ma c’è un… ma. La Commissione può condizionarne l’erogazione del mega-assegno al rafforzamento di tutto ciò che non piace al governo iper-nazionalista di Budapest: trasparenza, lotta alla corruzione, indipendenza della magistratura: insomma a quella panoplia di regole non rispettate che, insieme a una informazione ‘silenziata’ e a forze dell’ordine più di regime che di Stato, colorano a tinte fosche l’anti-democraticità del suo sistema di potere.
Non è che noi si nutra una particolare simpatia per il premier olandese, il ‘frugale’ liberal-liberista Mark Rutte. Che tuttavia, e finalmente, ha affermato a muso duro, rivolgendosi personalmente a Orbán durante un vertice: pur con tutti i suoi difetti, l’UE “o la si ama o la si lascia”. Rinunciando anche ai soldi della cassa comune? Figurarsi.
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