L’“unto del Signore” che non volle eredi
Come Berlusconi debuttò proclamando di detestare la politica e i giochi di partito, ma che poi se ne è comodamente servito
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Come Berlusconi debuttò proclamando di detestare la politica e i giochi di partito, ma che poi se ne è comodamente servito
• – Aldo Sofia
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Per “Il Mattino” l’aumento delle tariffe Arcobaleno è colpa degli ecologisti
• – Enrico Lombardi
Dopo numerosi tentativi falliti di disgelo, a che punto sono le frizioni tra le due super potenze? E quanto dobbiamo preoccuparci?
• – Loretta Dalpozzo
Dopo un periodo di duri scontri e di forte repressione, la situazione interna all’Iran sembra immobilizzata - Intervista a Paola Rivetti
• – Redazione
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
Il successo del "corteo popolare" apre una nuova fase nella rivendicazione di luoghi adeguati per la cultura spontanea e indipendente anche a Lugano e nel Ticino
• – Redazione
“Lavorare, lottare, diffondere”, le parole d’ordine della scrittrice, pittrice e prostituta ginevrina Grisélidis Réal, che ha lasciato in eredità una straordinaria documentazione sul lavoro del sesso
• – Boas Erez
La corsa a cedere i propri diritti musicali di diverse popstar in cambio di soldi, tanti e sicuri
• – Redazione
Trecento anni fa nasceva uno dei pensatori che ha cambiato il corso della storia. E che continua a far discutere, resistendo al tempo
• – Redazione
Come Berlusconi debuttò proclamando di detestare la politica e i giochi di partito, ma che poi se ne è comodamente servito
Riuscitissima la prima operazione, grazie anche a una “legge Gasparri” che spazzò via qualsiasi concorrenza privata attorno al regno Mediaset; per nulla compiuta la seconda, quella della svolta liberale, che alla fine risultò addirittura peggiorata nella sempiterna Italia del familiarismo, dei poteri forti, del demerito, della concorrenza interna “ingabbiata”, delle opere pubbliche incompiute (dopo-terremoto dell’Aquila docet), degli squilibri sociali rimasti tali o anche peggio, delle tasse da evadere massicciamente con una sorta di tacito lasciapassare, delle abili comparsate televisive e la scenetta del ‘decalogo’ di impegni’ (firmato davanti al solito gongolante Bruno Vespa) da mantenere, pena le dimissioni. Figurarsi.
Arrivò sostenendo di detestare le trame della politica e i giochetti partitici. Ma poi ci si è accomodato abilmente, tenacemente, a lungo. Sognò di passare alla Storia come l’artefice di un secondo “miracolo economico”, ma nel novembre 2011, quando poteva contare sulla più solida maggioranza parlamentare, dovette lasciare la guida (ricordate i sorrisetti maligni di Merkel e Sarkozy al vertice di Cannes?) di un paese sull’orlo del default. Eppure tanti italiani gli hanno perdonato tutto. O comunque moltissimo.
Grazie anche al fatto che fu lui il primo “populista” della storia repubblicana, capace di istaurare un rapporto personale e diretto con la sua platea, all’apprezzato e ostentato “machismo”, al “ghe pensi mi”, al potere delle sue antenne a cui ad un certo punto poté sommare anche il pieno controllo di una tv pubblica sempre acquiescente con il potente di turno. Sbagliava Indro Montanelli quando, entrato in conflitto con il “cav” suo editore, sbattendo la porta se ne andò profetizzando che il paese “aveva bisogno di guarire dal berlusconismo grazie a Berlusconi”, cioè sopportandolo in politica per una manciata di anni in modo da capire di quale stoffa fosse davvero il “patriarca” sotto l’immancabile doppiopetto e le esclusive cravatte napoletane di Marinella. Dietro cui cominciò a perdersi (a parte le parentesi prodiane) una sinistra senza un chiaro controprogetto, convinta che la denuncia del berlusconismo, le sue derive personali, e le denunce penali bastassero per affossarlo.
Conosceva e frequentava il Ticino. Sede di discrete cliniche per interventi di chirurgia estetica. Ma anche base di operazioni d’altro genere. Come quando venne a Lugano per la vendita del suo Milan pluridecorato, grazie a un contratto assai chiacchierato, di cui molto si sospettò e chiacchierò. Ma soprattutto con la base operativa messa lassù, a Besso alta, da dove passavano i contratti di acquisto-vendita di prodotti cine-televisivi. Bersaglio di indagine della magistratura italiana, con uno dei dirigenti locali che optò per la latitanza. Alla fine, niente. Come per altre accuse. Ultima in ordine di tempo, per corruzione, relativa a giovani donne pagate per tacere nell’ambito del “Ruby ter”. Processo chiuso per vizio di forma, gli inquirenti avendo “dimenticato” che le testimoni non possono testimoniare se non accompagnate dai loro legali durante gli interrogatori.
In coincidenza, quest’ultima sentenza assolutoria, con l’evidente tramonto del “patriarca”. A capo di un partito ridotto all’8 per cento dopo i trionfi elettorali, ma pur sempre ago della bilancia (“moderata”, sosteneva) nella coalizione di Giorgia Meloni. Di cui intimamente non accettò l’ascesa a Palazzo Chigi. Rimane quel “pizzino” che scrisse in Senato, ostentando poi le sue opinioni in modo che fotografi e telecamere dall’alto della tribuna-stampa potessero riprenderle comodamente, per far conoscere le sue opinioni sulla “sorella” di Fratelli d’Italia: “arrogante e incompetente”, due degli aggettivi vergati di suo pugno. Si autocandidò quindi a presidente della Repubblica, fra il silenzioso imbarazzo dei suoi partner. Non si staccò dall’idea di Putin “ottimo governante”, difendendolo calorosamente per l’attacco militare all’Ucraina, pur facendo parte di un governo iper-atlantista. Poi il “finto” e patetico falso matrimonio. In definitiva, un estremo protagonismo, un inutile divincolarsi per sottolineare la sua “imprescindibilità” e la sua forza politica, in realtà sempre più prigioniera delle signore (a turno) del suo ‘cerchio magico’: la sua ex infermiera, la sua non moglie, la più grande dei suoi figli.
Vista anche la sua unicità, non era uomo, il cavaliere, da indicare e lasciare eredi. Di Angelino Alfano disse che gli mancava “il quid”; con Franco Fini, il missino che pure aveva sdoganato e voluto prima come candidato sindaco di Roma e poi come ministro degli Interni, ma di cui temeva le ambizioni, la rottura fu più plateale: avvenne durante un convegno a pochi passi dal Vaticano, sala gremita, accuse reciproche, e alla fine il rifondatore dell’MSI (diventato AN) che si avvicinò al palco per chiedere polemicamente a Berlusconi: “che fai, mi cacci?”, ed era esattamente ciò che stava avvenendo. Ora avrà molti candidati successori “in pectore”. Sempre che Forza Italia, l’ex partito-azienda, abbia un futuro senza il suo fondatore e la sua anima. Sempre che non venga assorbita elettoralmente dalle formazioni alleate. Sempre che alla Meloni non riesca quella “rivoluzione”, ma di segno decisamente più reazionario e inquietante, che lui si limitò ad annunciare e a fallire.
Al termine di un’intervista che rilasciò alla tv svizzera durante una delle sue campagne elettorali più riuscite, e che cominciai chiedendogli che ne pensasse di quell’“unfit” (“inadatto” a governare) che gli aveva affibbiato un autorevole giornale britannico, presi congedo con una foto ricordo. Quando infine la rividi sul mio computer, notai sorpreso che nella foto lui era decisamente più alto di me. Per “gli amici svizzeri”, si era messo in punta di piedi. Prevalere, sempre e comunque.
Nell’immagine: i funerali di Berlusconi in Piazza del duomo a Milano immaginati dall’intelligenza artificiale di Midjourney (da un servizio di Claudio Riccio per Wired.it)
Ragioni e prospettive della ‘Grande dimissione’: sempre più lavoratori si licenziano per riconquistare una qualità di vita dopo decenni di deriva liberista
Dal Voltaire che pesa alla gigioneria dello Spettacolo dei libri… senza libri