USA – Cina, la guerra di Biden
Seimila miliardi di investimenti pubblici chiudono l’era reaganiana; il ritorno dello Stato per competere con il gigante asiatico
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Seimila miliardi di investimenti pubblici chiudono l’era reaganiana; il ritorno dello Stato per competere con il gigante asiatico
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Seimila miliardi di investimenti pubblici chiudono l’era reaganiana; il ritorno dello Stato per competere con il gigante asiatico
“Lo Stato è il problema”
Era l’inizio degli Anni Ottanta. L’avvio della “rivoluzione conservatrice” avveniva sotto l’impulso di Margaret Thatcher (“la società non esiste”, come dire esistono solo le individualità) e di Ronald Reagan (“lo Stato è il problema, non è la soluzione”). Tagli alle tasse dei più ricchi, secondo l’illusorio principio del “trickle down”, cioè del benessere dei più abbienti che sarebbe “sgocciolato” su tutto il resto della società; “deregulation” per lasciare il massimo di libertà a finanzieri e imprenditori, quindi il sempre invocato mantra della ‘mano invisibile del mercato’ (fermandosi a una versione mutilata e volutamente fuorviante del noto aforisma di Adam Smith); forte indebolimento delle rappresentanze sindacali; tagli al welfare; privatizzazione dell’istruzione ‘di qualità’ (l’indebitamento degli studenti universitari negli Stati Uniti è una ‘bolla’ esplosiva oltre che un regresso democratico); progressivo e insostenibile aumento delle disuguaglianze; costante depauperamento delle classi medie; tutte premesse su cui infine costruire la nuova e de-regolamentata globalizzazione. Effetti nefasti poi finiti nel comodo e facile imbuto populista di Donald Trump, presunto anti-establishment e anti-élite che aveva nel proprio governo il più alto numero di miliardari della storia americana.
Il ritorno dello Stato
Spinto anche dalle conseguenze socio-economiche dirompenti della valanga pandemica, quindi da uno ‘stato di bisogno, Joe Biden rovescia il dogma reaganiano, quindi “lo Stato è la soluzione, e non il problema”. È quanto dicono i seimila miliardi che si propone di erogare, pacchetto di investimenti pubblici senza precedenti in tempo di pace. Finanziato da una riforma fiscale che diminuisce le tasse della classe media (fino a 400 mila dollari di reddito), e aumenta quelle delle imprese e del famoso 1% dei più ricchi del paese (che controlla il 40 per cento della ricchezza nazionale), oltre all’annunciato proposito di varare un’imposta del 20% alle multinazionali che oggi eludono il fisco stabilendo il proprio quartier generale in Paesi fiscalmente molto ‘ospitali’ (per non essere soggetti a tasse nelle singole nazioni dove fanno profitti).
Due nuovi modelli di Stato
Probabilmente – per citare ancora Frédéric Koller, giornalista noto esperto dell’Asia – la strategia di Biden è alimentata anche dal fatto che “la prima potenza mondiale si scopre fragile, avverte la minaccia di un declassamento”, e, nel giro di un ventennio, rischia di non pesare più come in passato sulla governance mondiale. Il competitor si chiama Cina. E Biden lo chiama pubblicamente in causa. Ascoltiamolo:
“Dopo la mia elezione ho discusso per due ore con Xi Jinping: è molto serio quando afferma di voler fare della Cina la nazione più importante. Pensa che la democrazia non potrà più fare concorrenza ai poteri autocratici nel 21.mo secolo. La ritiene troppo lenta nell’ottenere il consenso”
Biden si propone di smentirlo. Sembra convinto che non essendoci più il confronto capitalismo-comunismo, la nuova cesura in questo secolo sarà fra due capitalismi di Stato: uno democratico, l’altro autoritario. Tertium non datur?
I drammi e le contraddizioni della Storia possono trovarsi anche dentro una partita. Saperlo può essere utile per fare davvero un passo avanti (tutti, e non solo al Mondiale)
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