Nazionalismo, una zavorra contro la quale battersi
La globalizzazione ha avuto molti effetti negativi, ma la risposta non può essere che globale anch'essa, e non nazionale o parcellizzata - Di Manuele Bertoli
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La globalizzazione ha avuto molti effetti negativi, ma la risposta non può essere che globale anch'essa, e non nazionale o parcellizzata - Di Manuele Bertoli
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Buone notizie, la newsletter con la segnalazione dei nuovi articoli a quanto sembra ha ripreso a funzionare. Ma siccome lo ha fatto per conto suo, senza che sia stato possibile comprendere la causa del difetto, potrebbe fermarsi di nuovo. Speriamo di no, naturalmente. Intanto continuiamo a fare il possibile per capirci qualcosa e ripristinare il servizio in modo affidabile. Grazie di nuovo per la comprensione e per l’interesse, dimostrato dalle numerose segnalazioni che abbiamo ricevuto. La redazione.
Su almeno tre punti il nazionalismo mi pare anche carente dal profilo concettuale.
Per quanto riguarda la geografia politica, lo spazio occupato, non si può innanzitutto non constatare che le patrie hanno molto spesso confini arbitrari, se non casuali, rendendo la loro essenza più effimera di quanto non la si voglia descrivere.
Anche dal profilo del tempo, difficile è non dover ammettere che questi medesimi confini sono praticamente sempre frutto della storia recente o molto recente, un battito di ciglia nella lunga linea del tempo del mondo, troppo poco per costruirci sopra quei sentimenti imperituri o eterni tipici della retorica nazionalista. Le tradizioni nazionali centenarie o millenarie sono quasi inesistenti anche nel “vecchio” continente, figuriamoci in quelli “nuovi”; per restare in casa nostra, sarebbe sciocco dimenticare ad esempio che i ticinesi sono svizzeri da poco più di 200 anni (i genitori dei miei trisnonni non lo erano ancora) e che i nostri vicini, gli italiani, sono tali solo dal 1861, solo cent’anni prima della mia nascita.
A queste due prime constatazioni si aggiunge quella inevitabile sulla mescolanza delle storie degli uomini, tale da rendere l’attaccamento di lunga data dei popoli ad una terra qualcosa di molto relativo. Un candidato alla presidenza USA ha recentemente promesso un’orrenda deportazione di massa degli stranieri dalla sua patria in caso di vittoria alle elezioni, dimenticando che quella patria, salvo per quel che riguarda i pochi nativi, è costituita da soli immigrati e discendenti di immigrati, lui compreso, essendo di origine tedesca, i primi giunti dall’Europa solo 400 anni or sono e moltissimi altri ben più tardi. Anche la Svizzera non sfugge certo a questo rimescolamento etnico.
La mia antipatia per i nazionalismi viene anche dalla constatazione che attorno ai confini molto spesso, più che l’amore per il proprio luogo o patria, si coltiva l’antagonismo verso gli altri, verso quelli che stanno al di là della linea. Uno strano modo di onorare le proprie radici, che malauguratamente non di rado non sono nemmeno particolarmente conosciute. Un antagonismo tra popoli, tra il “noi” e gli “altri”, che inevitabilmente finisce per esprimersi molto più nella concorrenza o nella conflittualità tra gli interessi delle diverse patrie, piuttosto che nella collaborazione, nella cooperazione che permette di meglio tenere conto degli interessi di tutti.
Al di là dei miei poco rilevanti sentimenti personali, non si può comunque non constatare come la storia indichi i nazionalismi come uno degli elementi importanti alla base dei conflitti tra i popoli. E se dalla storia si vogliono trarre degli insegnamenti, la tendenza al loro aumento alla quale assistiamo in questi ultimi anni non può non preoccupare: dalla conflittualità tra patrie del passato non è mai venuto nulla di buono e da quella recente, quasi paradossale in un mondo sempre più interconnesso, non è lecito attendersi cose diverse.
A sostegno del sentimento nazionalista non di rado viene evocata la difesa della sovranità a qualsiasi costo, una concezione che, partendo dalla presunta sacralità della patria, finisce per accostare a torto l’ipotesi di trattativa con altri Paesi al tradimento della nazione o quantomeno all’inizio di un suo tradimento. Eppure, a parte i Paesi con velleità autarchiche, nessuno Stato oggi può permettersi di non avere legami e interconnessioni internazionali piuttosto corpose, che, lo si voglia o meno, finiscono per definire obblighi e diritti reciproci, quindi anche per trasferire parte della sovranità ad altri o perlomeno per rinunciare ad esercitare parte delle prerogative connesse con la sovranità. Gli esempi di trasferimenti o di rinunce ad esercitare la sovranità non mancano di certo e in realtà non hanno mai scandalizzato nessuno, tant’è che, per restare solo al nostro Paese, anche i patrioti di destra non disdegnano per esempio gli accordi internazionali sul libero scambio, che inevitabilmente finiscono per limitare intenzionalmente la sovranità elvetica nell’imposizione di dazi o condizioni al commercio dall’estero verso la Svizzera. Per questo non credo che la questione della difesa della sovranità sia un vero argomento politico a sé stante, semmai lo è il bilancio dei vantaggi e degli svantaggi che un accordo internazionale o un insieme di accordi internazionali può portare alla popolazione, sapendo comunque dall’inizio delle trattative che, siccome anche gli altri Stati o conglomerati di Stati badano ai propri interessi, nessuna trattativa finisce con soli vantaggi per una parte e soli svantaggi per l’altra.
Nel terzo millennio, con la crescita della consapevolezza di un mondo che diventa sempre più piccolo e della necessità e urgenza di affrontare i grandi temi che affliggono gli uomini su base globale (la fine, finalmente, della fame e della denutrizione, la lotta alle malattie conosciute e guaribili, la lotta al riscaldamento climatico, la ridistribuzione della ricchezza, l’allargamento delle opportunità per tutte e tutti, la gestione delle migrazioni) il nazionalismo è solo una zavorra pericolosa. Ad esso va senza dubbio preferito un approccio basato sulla cooperazione tra Stati allo scopo di risolvere o ridurre i problemi globali individuati in maniera condivisa, un processo non esente da infinite complicazioni, a partire da quella di mettersi d’accordo sugli obiettivi da perseguire, dalla comprensibile delusione per i risultati insufficienti dei necessari passi intermedi e parziali, dalla necessità di considerare le ripercussioni dei cambiamenti sulle diverse categorie di cittadini, dalla cessione di sovranità ad entità più grandi, ma l’unico processo che può sperare di ottenere risultati interessanti per tutti.
L’approccio nazionalistico viene di questi tempi spesso evocato anche come antidoto ai guasti della globalizzazione economica, la quale, oltre ad aver offerto opportunità a molti Paesi di partecipare al commercio mondiale, cosa senza dubbio positiva, si è purtroppo portata dietro anche la deregolamentazione dei mercati, la privatizzazione di non pochi servizi di pubblica utilità, la messa in concorrenza dei luoghi di produzione con il conseguente indebolimento del potere di contrattazione dei lavoratori su base nazionale o locale, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la crescita del potere della finanza. Eppure, se non vi è alcun dubbio che nella globalizzazione il capitalismo abbia saputo sfruttare per bene il vantaggio di agire a tutto campo, al di là dei confini e delle prescrizioni nazionali, è altrettanto evidente che, proprio per questo, anche la risposta politica agli effetti negativi della globalizzazione non possa che essere globale e non nazionale o parcellizzata. In questo ambito abbiamo assistito alla messa a punto di provvedimenti sbagliati, come ad esempio quelli inefficaci inerenti al mercato internazionale dei certificati connessi con la produzione di CO2, ma anche di passi nella giusta direzione interessanti. Il fatto che le grosse aziende oggi paghino almeno il 15% di imposte sui loro profitti anche in Svizzera, per esempio, è il frutto dell’applicazione di uno standard, a mio parere ancora insufficiente ma reale, che per fortuna è stato deciso a livello internazionale, visto che la maggioranza politica del nostro Paese non avrebbe mai accettato autonomamente questo limite minimo (infatti ha voluto esonerare da questa regola le imprese più piccole, purtroppo anche con il benestare popolare). Di recente il G20 ha avviato il processo per imporre un limite fiscale del 2% sui redditi delle persone molto facoltose, un processo che auspico possa presto tradursi anch’esso in provvedimenti nazionali coordinati.
Qualcosa lentamente, molto lentamente, si muove, misure largamente insufficienti ma positive, perché inserite in un contesto internazionale, con la precipua idea di superare la concorrenza o conflittualità tra Stati. Per dare una chance a questo trend, positivo ma ancora molto parziale e incerto, è però necessaria un’azione insistente dei progressisti contro le tentazioni nazionalistiche: sono infatti queste chiusure a costituire oggi il principale vettore della resistenza ai cambiamenti necessari, a sostenere quel conservatorismo che non permette di dare una prospettiva alle generazioni future e alle loro esigenze sociali e ambientali. Un’azione che purtroppo non mi pare abbia oggi il vigore necessario per far comprendere che rifugiarsi nell’illusione delle soluzioni nazionali alle questioni globali non porta da nessuna parte e non fa che ritardare interventi globali non più rinviabili. Per queste ragioni questa lotta deve oggi essere ripresa con forza, senza paura di alienarsi i favori di quella parte della popolazione che, anche se attratta dalle sirene nazionaliste, non sa rinunciare all’internazionalità della nostra realtà, che vive attraverso quel che acquista ogni giorno, attraverso la diversità delle cose che mangia, attraverso i viaggi e il turismo, attraverso l’informazione rapidissima che ci investe ogni minuto e ci dà conto con impressionante immediatezza di quel che succede ai quattro angoli del pianeta ecc. La lotta contro i nazionalismi è una battaglia culturale tutt’altro che facile, ma è una necessità imprescindibile per tentare di ridurre o rimuovere uno dei principali ostacoli al progresso, una battaglia che deve essere una vera priorità e connotare i prossimi anni e decenni.
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