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• 24 Marzo 2022 – Redazione

Di Ilia Krasilshchik, ex editore di Meduza, sito di informazione indipendente russo – Pubblicato dal New York Times e tradotto da Valigia blu 

“Svegliati, Sonya, la guerra è cominciata”. Sono state le prime parole che ho detto alla mia compagna la mattina del 24 febbraio, mentre i missili russi piovevano sull’Ucraina. Parole che mai avrei pensato di dover dire.

A Mosca nessuno credeva che potesse scoppiare una guerra, anche se ora è dolorosamente chiaro che il Cremlino si stava preparando da anni. Noi, i milioni di russi che si opponevano apertamente o segretamente al regime di Vladimir Putin, eravamo solo testimoni silenziosi di quanto stava accadendo? O, peggio ancora, lo abbiamo avallato?

No. Nel 2011, quando è stato annunciato che Putin sarebbe tornato al Cremlino come presidente, decine di migliaia di persone sono scese in strada per protestare. Nel 2014, quando la Russia ha annesso la Crimea e fomentato la guerra nel Donbas, abbiamo tenuto enormi manifestazioni contro la guerra. Nel 2021 siamo scesi di nuovo in piazza in tutto il paese, quando il principale membro dell’opposizione russa, Aleksei Navalny, è stato arrestato dopo il ritorno a Mosca.

Vorrei credere che abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per tenere a freno Putin. Ma non è vero. Anche se abbiamo protestato, organizzato, fatto pressione, diffuso informazioni e costruito vite oneste all’ombra di un regime corrotto, dobbiamo accettare la verità: abbiamo fallito. Abbiamo fallito nel prevenire una catastrofe, non siamo riusciti a cambiare in meglio il paese. E ora dobbiamo sopportare il peso di questi fallimenti.

I russi che si oppongono alla guerra si trovano ora in una situazione terribile. Non solo non siamo riusciti a fermare un’invasione insensata e illegale: non possiamo nemmeno contestarla. Una legge approvata il 4 marzo punisce con una pena fino a 15 anni chi nel paese esprime sentimenti contro la guerra (circa 15.000 persone sono già state arrestate per azioni contro la guerra dall’inizio dell’invasione). Di fronte a un futuro intollerabile, migliaia di persone sono fuggite dal paese. Chi non è fuggito ha perso buona parte delle libertà rimaste. Dopo che Mastercard e Visa hanno sospeso le operazioni nel paese, molti non possono nemmeno pagare un servizio VPN per accedere a media indipendenti.

È come se fossimo dei criminali non solo per il nostro Stato, ma anche per il resto del mondo. Ma non siamo criminali. Non abbiamo iniziato questa guerra e non abbiamo votato per le persone che l’hanno fatto. Non abbiamo lavorato per lo Stato che ora bombarda le città ucraine. Più volte abbiamo alzato la voce contro le politiche del governo, anche se è diventato sempre più pericoloso farlo.

Non è stato facile. Nell’ultimo decennio, una miriade di leggi repressive ha schiacciato le proteste pubbliche, decimato la stampa libera, censurato internet e soppresso la libertà di espressione. Le testate indipendenti sono state bloccate, i giornalisti sono stati etichettati come “agenti stranieri” e le organizzazioni per i diritti umani sono state chiuse. Migliaia di persone sono state arrestate e picchiate. Le più importanti voci critiche sono state spinte all’esilio o uccise. Alexei Navalny è stato imprigionato e potrebbe rimanere in carcere per molti anni. Abbiamo pagato l’aver osato sfidare.

Nonostante tutto, spetta a noi iniziare il dibattito su ciò che sta accadendo. L’invasione dell’Ucraina segna la fine dell’era postbellica della Russia. Durante i 77 anni trascorsi dalla Seconda Guerra Mondiale, la Russia è stata considerata – a prescindere da qualsiasi altra valutazione – come il paese che ha contribuito a salvare l’umanità dal più grande male che il mondo abbia mai conosciuto. La Russia era il paese eroico che ha sconfitto il nazifascismo, anche se quella vittoria ha imposto 45 anni di comunismo su mezza Europa. Ora non più. La Russia è ora la nazione che ha scatenato un nuovo male, e a differenza del vecchio è dotata di armi nucleari.

La responsabilità principale di questo male giace ai piedi di Putin e della sua cerchia. Ma per chi si è opposto al regime, in modo eclatante o su piccola scala, la responsabilità è anche nostra. Come è successo? Cosa abbiamo fatto di sbagliato? Come possiamo evitare che accada di nuovo? Queste sono le domande con cui ci misuriamo. Non importa dove siamo – Mosca, Tbilisi, Yerevan, Riga, Istanbul, Tel Aviv o New York – e non importa cosa stiamo facendo.

“Responsabilità” è la chiave di tutto. C’era molto di buono nel paese in cui sono cresciuto, quello che ha smesso di esistere due settimane fa. Mancava però la responsabilità. La società russa è molto individualista: la gente, per citare lo storico Andrei Zorin, vive con la mentalità del “Lasciami in pace”. Ci piace isolarci gli uni dagli altri, e così dallo Stato, dal mondo. Questo ha permesso a molti di costruirsi esistenze vivaci, piene di speranza ed energia su uno sfondo cupo di arresti e prigioni. Così facendo ci siamo chiusi in noi stessi, perdendo di vista tutti gli altri.

Ora è tempo di mettere da parte le preoccupazioni individuali e accettare la nostra comune responsabilità per la guerra. Un simile gesto è prima di tutto una necessità morale. Ma potrebbe anche essere il primo passo verso una nuova Russia – una nazione che potrebbe parlare al mondo in una lingua diversa da quella di guerre e minacce, una nazione che gli altri impareranno a non temere. È verso la creazione di questa Russia che noi, i reietti, gli esiliati e i perseguitati dovremmo tendere ogni sforzo.

Mediazona, un sito web indipendente che copre i procedimenti penali e il sistema giudiziario, ha uno slogan ossessionante: “Andrà peggio”. Negli ultimi dieci anni, questa è stata una previsione lugubre, ma accurata. Mentre la Russia bombarda l’Ucraina, è difficile immaginare che la situazione smetta di essere terribile. Ma dobbiamo farlo.

Nell’immagine: Ilia Krasilshchik






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