La Striscia di Gaza ha una superficie pari a un ottavo di quella del Cantone Ticino, vale a dire che in un fazzoletto di terra otto volte più piccolo del territorio ticinese è ammassata una popolazione di oltre 2 milioni di persone, mentre in tutto il nostro Cantone vivono poco più di 350’000 persone.
A Gaza le persone tra 0 e 14 anni sono il 39 per cento della popolazione, quelle con più di 65 anni il 2,9; l’età media è di 18 anni; il tasso di disoccupazione tra i giovani è del 75 per cento; l’80 per cento degli abitanti dipende dagli aiuti umanitari e le persone che vivono sotto la soglia di povertà sono l’81 per cento della popolazione; nel 2022 l’elettricità c’è stata in media per 13 ore al giorno; il 96 per cento dell’acqua dell’unica falda acquifera non è adatta al consumo umano.
In Cisgiordania la situazione non è tanto migliore: “Ai palestinesi della Cisgiordania è vietato difendersi – difendere le loro vite, la loro terra o le loro proprietà – dagli aggressori ebrei. L’autodifesa contro i coloni ebrei in Cisgiordania è un reato che può avere come conseguenza multe pesanti, l’arresto, un processo, il carcere o la morte. (…). I palestinesi sanno che se si mettono a difendere un pastore o un contadino, i soldati li ‘disperderanno’ con i mezzi a loro disposizione: dai gas lacrimogeni alle percosse fino ai proiettili. (…). Generazioni di soldati sono state addestrate a credere che non proteggere i palestinesi sia un valore, un principio indiscusso e un ordine. Di conseguenza i soldati restano in disparte quando ci sono i pogrom contro i palestinesi, o addirittura aiutano i rivoltosi ebrei ad attaccarli e a espellerli dalla loro terra” [Internazionale 1530, 22.09.2023], così scrive Amira Hass, giornalista e scrittrice israeliana figlia di sopravvissuti all’Olocausto, che vive nella città palestinese di Ramallah e lavora per il giornale Haaretz di Gerusalemme.
Ciò non giustifica in alcun modo quanto accaduto il 7 ottobre scorso, allorché è avvenuta l’abominevole mattanza perpetrata dai miliziani di Hamas, senz’altro da condannare e da esecrare.
Come, d’altronde, simile crudele attacco commesso da una fazione estremista non giustifica una punizione collettiva come quella messa in atto da un governo di estrema destra e militarizzato (nel senso di disporre al proprio servizio di un esercito fra i più micidiali al mondo in termini di dotazione di sistemi d’arma e fra i più tecnologicamente/atomicamente avanzato), dove siedono due membri oltranzisti, uno dei quali di recente si è prodigato in un’ostentata quanto provocatoria “passeggiata” sulla spianata antistante la Moschea al-Aqsa, suscitando l’indignazione e la rabbia della comunità islamica. La prima reazione del primo ministro Benjamin Netanyahu (redivivo politicamente dopo i non pochi scandali di corruzione, frode e abuso di potere che lo avevano posto sotto inchiesta della magistratura), per lavare l’onta dell’oltraggio subito, è stata quella di invocare una terribile vendetta e spedizione punitiva, prima ancora di prestare l’attenzione che meritavano ai cittadini sequestrati e portati via da Hamas. E così è scattata e si è scatenata la feroce rappresaglia del governo israeliano cui assistiamo ininterrottamente da giorni con continui e pesanti bombardamenti di città e aree densamente popolate palestinesi, con un assedio totale della prigione a cielo aperto come ormai da tempo viene denominata la Striscia di Gaza, con la privazione di cibo, acqua, elettricità, carburante cui è sottoposta un’intera popolazione.
Sono senza dubbio dei crimini gli attacchi terroristici di Hamas che prendono di mira civili innocui e incolpevoli, così come sono dei crimini contro l’umanità anche gli indiscriminati bombardamenti del governo israeliano sotto i quali finiscono famiglie intere: donne, anziani, disabili e soprattutto bambini traumatizzati e che, se riescono a riaprire gli occhi, rimangono per giorni senza parlare per lo shock. Come rimanere insensibili davanti alle immagini di quel bambino piccolo, sottratto alle macerie della propria casa, che dopo essere rimasto impietrito con l’espressione terrorizzata prorompe in un singhiozzo dirotto dopo essere stato abbracciato da una soccorritrice? Lo stesso strazio che si prova davanti alle scene della terra bruciata fatta dagli jihadisti nei kibbutz a ridosso della Striscia dove sono state massacrate e bruciate intere famiglie e orrendamente uccisi bambini innocenti. Attaccare i civili è uno dei crimini peggiori, come sancito già nel 1945 dalla Carta del tribunale militare internazionale di Norimberga.
Il giorno dopo l’incredibile e feroce attacco del 7 ottobre, un gruppo di ex soldati israeliani che si battono contro l’occupazione, riuniti nell’ong Breaking the Silence, così si esprime: “L’attacco di Hamas e gli eventi che si sono susseguiti da ieri sono indescrivibili. Potremmo parlare delle loro azioni crudeli e criminali o concentrarci sul modo in cui il nostro governo suprematista ebraico ci ha portato a questo punto. Ma come ex soldati israeliani il nostro compito è di parlare di quello che siamo stati mandati a fare. La politica di sicurezza di Israele, da decenni ormai, è ‘gestire il conflitto’. I governi israeliani che si susseguono insistono in un’ondata di violenza dopo l’altra, come se tutto ciò potesse fare la differenza. Parlano di ‘sicurezza’, ‘deterrenza’, ‘cambiare l’equazione’. Tutte queste sono parole in codice per ‘bombardare a tappeto la Striscia di Gaza’, sempre con la giustificazione di colpire bersagli terroristici, ma sempre anche con un pesante bilancio di vittime civili. Tra un’ondata e l’altra di violenza, rendiamo la vita impossibile ai cittadini di Gaza e poi ci sorprendiamo quando la situazione esplode (…) La domanda che tutti gli israeliani si fanno è: dov’erano i soldati ieri? Perché l’esercito era apparentemente assente mentre centinaia di israeliani venivano massacrati nelle loro case e nelle strade? La triste verità è che erano ‘impegnati’. In Cisgiordania. Mandiamo i soldati a proteggere le incursioni dei coloni nella città palestinese di Nablus, a inseguire i bambini palestinesi a Hebron, a proteggere i coloni durante i pogrom” [Internazionale 1533].
I due popoli – quello palestinese e quello israeliano – non si meritano affatto la dirigenza che li governa, li tiene in scacco e li strumentalizza, spingendoli in un baratro terribile e in una sofferenza infinita.
Anche se è difficile pensare come generazioni di giovani, che hanno vissuto soltanto questa guerra strisciante pluridecennale con il corollario di soprusi, privazioni, frustrazioni e dolore, che ha fatto montare tanto odio nel loro animo, possano ancora coltivare qualche sprazzo di speranza in una riconciliazione possibile, non è consentito, almeno a noi, abbandonare ogni sforzo per cercare una via d’uscita.
Allora potremmo chiederci: come riuscire a ritrovare un minimo di lucidità e ritessere il filo di una visione illuminata dalla ragionevolezza? Quella consapevolezza che solo una pace giusta può alimentare la speranza in una convivenza accettabile, come aveva capito il premier Yitzhak Rabin che sulla piazza dei Re d’Israele a Tel Aviv, il 4 novembre 1995, pronunciò queste parole: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele (…) La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Purtroppo egli venne ucciso, subito dopo quel discorso, da uno studente israeliano di estrema destra.
Oggi né da una parte né dall’altra dei due schieramenti sembrano esserci leader all’altezza della situazione, sebbene nelle reciproche società civili siano presenti innumerevoli germi e attestazioni di grande umanità e civiltà.
In campo israeliano, mi ha colpito la reazione di una giovanissima sopravvissuta all’assalto a uno dei kibbutz che appena tratta in salvo non si è scagliata con veemenza contro il “nemico” in generale – come del resto sarebbe stato comprensibile –, ma che con grande maturità ha cercato di contestualizzare l’accaduto all’interno del quadro socio-economico e politico in cui si è svolto, richiamando anche le pesanti responsabilità del governo Netanyahu.
Così come ho ammirato la reazione di una dirigente di un’associazione israelo-palestinese a sostegno delle donne che da Tel Aviv cercava di mantenere i contatti con le proprie collaboratrici palestinesi nella Striscia per condividere la loro afflizione e disperazione, con la ferma volontà di non farsi sopraffare dall’odio, dalla violenza, dalla barbarie, ma fortemente ancorata all’intenzione di mantenere la “propria umanità”.
In campo palestinese cito soltanto gli eroici medici e tutto il personale curante dell’ospedale di Gaza, disposti a morire sotto le bombe pur di non abbandonare i pazienti, in condizioni di grande penuria sanitaria in cui, oltre a tutto il resto, manca il carburante per alimentare i generatori che tengono in vita centinaia di vittime civili, in gran parte minori. Trasferirsi al Sud della Striscia, come imposto dall’esercito di Tel Aviv, significherebbe decretarne la morte … fermo restando che, paradossalmente (?) e crudelmente, anche chi ha deciso per il trasferimento imposto, partendo in fretta e furia con pochi stracci, si è ritrovato di nuovo sotto le bombe a Khan Yunis e in tutto il Sud.
Vi sono poi registi, scrittori, artisti, intellettuali, giornalisti (vedi le testimonianze che abbiamo letto anche su Naufraghi/e), nonché innumerevoli esempi provenienti dalla società civile israeliana che perorano un cambiamento di rotta significativo per uscire finalmente dall’impasse, per cui non nutro dubbi sulla capacità di Israele di mantenersi saldamente legata alla democrazia Speriamo che pure i palestinesi, sulla scorta di una ricca tradizione politica e culturale (cito solo due nomi: Edward W. Said, professore di letteratura comparata alla Columbia University morto nel 2003, nonché la poetessa e scrittrice Hanan Awwad, fondatrice e presidente della sezione palestinese della Wilpf–Lega internazionale femminile per la pace e la libertà, riescano a ritrovare dei leader all’altezza della grande impresa che li attende: costruire le basi per rinfocolare il progetto di una pace possibile che li porti all’autodeterminazione in un territorio proprio, senza occupanti e assoggettamenti, così da agguantare finalmente una “quotidianità normale” assente e anelata da troppo tempo.
Dal canto nostro cosa potremmo fare? Non accettare certe logiche di “onni-potenza” che portano ad un abbraccio mortifero le due fazioni in guerra, tenendo in ostaggio le reciproche società civili.
Ma soprattutto non rifugiarci nel nostro pavido e ipocrita atteggiamento; nel girarci, ancora una volta, dall’altra parte non appena si concluderà l’ennesima fiammata mediorientale, lasciando languire questo conflitto “eterno”, così come abbiamo fatto molte altre volte, allorché abbiamo abbandonato al loro destino popolazioni intere dopo il nostro profluvio di tanto nobili quanto vacui proclami alla civiltà, alla democrazia, all’umanitarismo: vedi Iraq, Afghanistan, Siria … e più di recente il Nagorno-Karabakh.
“Così gli armeni del Nagorno sono diventati l’assenza dei nostri sguardi, la pausa nei nostri impegnati discorsi da parte giusta del mondo, la omertà, questa sì davvero mafiosa, del nostro silenzio. Gli armeni di questo frammento insanguinato e derelitto del Caucaso sono la nostra omissione. Che spesso è peccato più grave dell’azione, dell’atto. Non abbiamo fatto nulla per salvarli o alleviare in parte il loro destino. (…) Saranno gli eterni assenti al nostro comodo banchetto dei diritti umani, gli invitati che non invitiamo, il vuoto che non riempiamo. In cui si installerà invece tronfio e gaudente l’ennesimo lestofante, l’emiro azero, che ci serve, che ci dà una mano energetica e petrolifera. (…) i centoventimila armeni del Nagorno diventeranno rapidamente profughi, rifugiati e poi migranti e clandestini da qualche parte, niente paura sono già milioni, in qualche modo ai ‘flussi secondari’ si provvederà” (Domenico Quirico, “La Stampa”, 30.09.2023).
Ma torniamo in Medioriente, dove è necessario che la comunità internazionale, quella di matrice occidentale, unitamente all’ONU superi l’imperativo categorico di garantire sempre e comunque l’impunità alle azioni, anche le più discutibili, delle autorità di Tel Aviv, attestata da una trentina di risoluzioni delle Nazioni Unite prese nei confronti dello Stato ebraico rimaste lettera morta dagli anni Sessanta a questa parte. E ciò infrangendo la paura di essere accusati di antisemitismo, perché non si tratta certo di tirare addosso ad Israele, ma di riportare le sue istanze governative alla responsabilità di certe decisioni politiche e operazioni militari, che oltre a discreditare la sua tradizione democratica mettono in serio pericolo le comunità israelite in tutto il mondo. L’impunità, così come l’arroganza e il senso di superiorità che spesso l’accompagnano, sono il peggior nemico di Israele. Sono il primo ad essere disgustato dalle aggressioni perpetrate ai danni di esponenti della comunità ebraica e dagli atti vandalici che profanano i simboli della stessa, ma quanto succede o accadrà a Gaza non potrà che avere gravi ripercussioni nelle varie realtà nazionali. Per dire che in un mondo tanto mediatizzato le varie propagande e quanto verrà mostrato, scritto e detto dai vari organi d’informazione susciteranno reazioni più o meno scomposte anche molto lontano dallo scenario sotto i riflettori. Tutto il mondo sta osservando, e molti con il fiato sospeso, quanto verrà deciso e attuato dal governo israeliano.
Il tributo di sangue è già ora elevatissimo; ai 1200 morti crudamente ammazzati nel raid di Hamas e ai 200 sequestrati, si sommano gli effetti dei bombardamenti incessanti dell’esercito di Tel Aviv: oltre 5 mila morti, di cui almeno 1500 bambini, più di 17 mila feriti, quasi 143 mila strutture abitative palestinesi distrutte o danneggiate, 3 su 10. È il devastante bilancio a nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto e della ritorsione scatenati a Gaza. A fornire i numeri della tragedia (aggiornati al 20 ottobre) è l’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha), l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Non basta questo fiume di sangue per indurre a fermare la macchina della guerra? O la punizione collettiva deve continuare per raggiungere un numero ancora più elevato di vittime, in grado di placare la brama di rivalsa e vendetta dei ‘falchi’? Nessuno (o quasi) nega il diritto di Israele all’autodifesa, ma tale principio non significa praticare il “diritto” ad annichilire un’intera popolazione (bambini, donne, anziani, disabili …) rinchiusa e intrappolata in una striscia di terra blindata e strangolata da fame, sete, bombardamenti ininterrotti giorno e notte.
In queste circostanze, ci si potrebbe chiedere: chi è Davide e chi Golia? “Dietro ai fatti degli ultimi giorni si nasconde l’idea che noi israeliani possiamo fare quello che ci pare, tanto non saremo mai puniti. Continueremo indisturbati. Arresteremo, uccideremo, esproprieremo e proteggeremo i coloni impegnati nei loro pogrom. (…) Dopo 75 anni di abusi, ci attende ancora una volta lo scenario peggiore possibile. Le minacce di “spianare Gaza” dimostrano solo una cosa: non abbiamo imparato proprio niente. L’arroganza non sparirà, anche se Israele sta pagando comunque un prezzo alto. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha una grande responsabilità per quanto è successo e deve risponderne, ma questa situazione non è cominciata con lui e non finirà con lui. Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane, ma dovremmo farlo anche per la Striscia di Gaza. Gaza, dove i residenti sono soprattutto rifugiati creati da Israele. Gaza, che non ha mai conosciuto un solo giorno di libertà.” (Gideon Levy, giornalista di Haaretz).
Speriamo che la Stella di Davide possa risplendere su un mondo migliore o, almeno, non troppo peggiore.
Nell’immagine: il ministro della Sicurezza nazionale israeliano (di estrema destra) Ben-Gvir al Monte del Tempio, dove si trova la Moschea di al-Aqsa: “Siamo qui per dimostrare di nuovo chi è il padrone di Gerusalemme”