Nel 1891
la Confederazione elvetica aveva 43 anni, e si era già data due costituzioni. La Svizzera di allora era fragile e complessa, con le sue quattro lingue e culture, e con la sua storia non semplice. Il Consiglio federale di allora, nel 1891 appunto,
aveva bisogno di aggregare il proprio popolo con simboli forti e comprensibili.
Il rispolverato Patto federale del 1291 (ossia una pergamena retrodatata, probabilmente la copia di un documento originale consumato dall’usura, che giaceva nell’archivio di Svitto, e che fu riscoperta nel 1758) e il mito di Guglielmo Tell (legato soprattutto all’immagine che ne diede Schiller) cadevano a fagiolo. Da allora, ogni 1. di agosto: festa nazionale, discorsi, falò e, più recentemente, fuochi d’artificio. E tanta, tanta retorica, soprattutto a destra.
Cominciamo dalla storia. Nel 1291 non esistevano i Cantoni, e non c’era una “Svizzera primitiva”. La Svizzera centrale non fu né il nucleo né la radice dell’antica Confederazione, alla quale occorse invece un lungo processo di formazione determinato soprattutto dalle città di Berna e di Zurigo. Il Patto federale non fu dunque un atto di fondazione di uno Stato (nel Medioevo non si potevano fondare degli Stati, come sottolineava lo storico Roger Sablonier, professore emerito di storia medievale all’Università di Zurigo) e ancora meno fu un atto di ribellione nei confronti di un presunto oppressore.
Quel patto, come altri contemporanei che si possono osservare a Svitto, aveva esclusivamente la funzione di assicurare il sistema di potere esistente nell’interesse delle élite locali; non parla di libertà, né di resistenza contro la dominazione degli Asburgo o contro balivi stranieri. Anche perché nella Svizzera centrale gli Asburgo non si imposero mai, certamente i loro interessi erano altrove. “I veri concorrenti della nobiltà locale”, la quale sì assoggettava il popolo, “erano i conventi, che con le loro proprietà terriere e i loro allevamenti bovini crebbero a scapito dei piccoli contadini”, come ricorda Sablonier. Nel 1220 venne aperto il passo del San Gottardo, e a quell’epoca la nobiltà locale lottava contro il proprio declino: gli interessi in gioco erano altissimi, ma erano anche molto lontani dalle fatiche quotidiane per la sopravvivenza dei sudditi delle famiglie che comandavano. Il Patto federale, se mai ha avuto uno scopo, non ha esercitato alcun influsso sulla politica della vecchia Confederazione.
Accanto alla storia, il mito. Il quale, per sua stessa natura, non necessita di alcuna autenticità per imporsi nella tradizione popolare. Infatti, la realtà delle cose lo sconfessa, ma esso resiste come se nulla fosse. Nel 1291, le zone di Uri, Svitto e Untervaldo non conoscevano né balivi né feudatari stranieri intermedi. Essi erano direttamente soggetti all’Imperatore, godevano di un particolare statuto che li rendeva, di fatto, indipendenti. Non v’era, quindi, una reale necessità di allearsi contro qualcuno, ma piuttosto la volontà di consolidare un potere interno, ossia per governare su cittadini già “liberi”. La leggenda di Guglielmo Tell si inserisce in modo fallace in quel contesto: il saluto al cappello (tanto famoso) era solo un segno di rispetto (nei confronti di chi aveva offerto “indipendenza”) e non di sudditanza verso un oppressore. Il gesto di disobbedienza di Tell, che portò alla vicenda della freccia e della mela, fu soprattutto un gesto di ignoranza e non di insurrezione.
Al proposito val la pena leggere -e rileggere- il gustosissimo libro di Max Frisch, “Guglielmo Tell per la scuola”, che in modo dotto e insieme ironico -ma non tanto- riscrive un immaginario alternativo ben più avvincente di quello “ufficiale”. Soprattutto, il mito mette in evidenza, evidentemente suo malgrado, come quell’episodio fu in effetti il preambolo non di una rivolta, ma di un assassinio brutale. Max Frisch ci mette in guardia: la fondazione della Svizzera, così come la celebriamo, ha nelle sue origini un atto di violenza inutile e insensato, il che conferma quanto i miti siano per loro natura conservatori e servano a proporre una verità utile a chi la vuole imporre e mantenere. Sempre Sablonier afferma anche che “miti e leggende non sono cattivi in sé. Se però servono a veicolare emozioni nazionaliste contrarie alla dignità umana, venate di xenofobia e razzismo, allora il discorso è diverso”. Non è necessario spiegare ai lettori quali siano i “patrioti veri” che cavalcano oggi quelle “verità” e quei miti.
In questo contesto, fra storia e mitologia, ogni anno i nostri politici tornano regolarmente a riesumare immagini retoriche sulla neutralità -quella dei signori Marchesi, Gobbi, Chiesa, che da loro invocata oggi fa oggettivamente solo il gioco della Russia di Putin- o sulla coesione, sulla tolleranza, sul rispetto, sulla “necessità per le istituzioni di assumere un ruolo decisivo a favore dei giovani” (municipale democentrista di Lugano dixit). Salvo poi togliere allo Stato le risorse per “assumere un ruolo decisivo”, attraverso decreti scellerati firmati UDC, Lega e liberali; salvo poi cacciare , di forza, giovani cresciuti, scolarizzati, con un mestiere, perfettamente integrati nella nostra Svizzera, in un paese a loro estraneo, solo perché arrivati da noi anni or sono come profughi. E già si discute su cosa si farà degli ucraini che desiderassero, domani, restare fra noi!
Dove sono quei valori di coraggio, di dignità, di coesione, di tolleranza sui quali si fonda, seppure artatamente, il mito della Svizzera ? Non di certo nella politica della destra svizzera, una politica che divide, che umilia, che frena l’emancipazione. Dove è la Svizzera che ha così coraggiosamente, e forse con troppa generosità nei nostri confronti, illustrato il calciatore Mijat Maric, in occasione del suo discorso a Locarno per il primo di agosto? Maric è giunto in Svizzera 30 anni or sono, ha avuto la possibilità di farsi svizzero, ha avuto una brillante carriera professionistica in Svizzera, Italia e Belgio, ha vestito la maglia nella nostra (e sua) nazionale. Quanta Svizzera è come quella che dipinge Maric?
Concludiamo però in bellezza, poiché non tutti sono del nostro parere (ci mancherebbe!).
Un’auto-candidata al Consiglio di Stato per il PS mira e ammira il nostro paese come fosse una sorta di Eden: ha infatti “postato” questo messaggio in occasione del primo di agosto: “Care amiche e cari amici, in un mondo sempre meno comprensibile, sempre meno stabile, la nostra Svizzera appare sempre più come un porto sicuro. Siamo un paese che funziona, dove la diversità è un valore, nel quale la ricerca comune di una soluzione ai problemi viene ancora prima del tentativo di sfruttarli per un guadagno politico. Ma nel mondo siamo passati attraverso pandemie e guerra e il nostro pensiero va a coloro che non possono contare su un paese stabile, valori sicuri, certezze. Noi per fortuna, e molto per merito di una lunga storia di buone decisioni collettive, abbiamo un paese così. Certo, non siamo perfetti. Ma oggi celebriamo questa storia e noi stessi ed è giusto farlo ancora di più nell’epoca pazza in cui viviamo. Buon Compleanno Svizzera e buon 1 agosto a tutte e tutti! “
Tale e quale, e detto, sia ben chiaro, da qualcuno che vorrebbe rappresentare i valori (e le lotte) della sinistra ai più alti livelli politici cantonali. Delle due l’una: o il testo, d’ammaliante prosa, è meravigliosamente ironico, oppure la signora si è presa un bel colpo di sole.
Nell’immagine: Elvezia in viaggio, scultura di Bettina Eichin a Basilea