Le parole giuste e quelle sbagliate
A proposito della manifestazione in memoria di Alika Ogochukwu, l’uomo nigeriano ucciso a Civitanova Marche sotto gli occhi dei passanti
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A proposito della manifestazione in memoria di Alika Ogochukwu, l’uomo nigeriano ucciso a Civitanova Marche sotto gli occhi dei passanti
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A proposito della manifestazione in memoria di Alika Ogochukwu, l’uomo nigeriano ucciso a Civitanova Marche sotto gli occhi dei passanti
Ho partecipato alla manifestazione in memoria di Alika Ogochukwu, l’uomo nigeriano ucciso brutalmente da Filippo Ferlazzo una decina di giorni fa a Civitanova Marche. È stata una manifestazione pacifica, toccante e partecipata, malgrado il caldo davvero tremendo delle 14 del 6 agosto 2022. Prima del corteo, da più parti è provenuto l’appello a non strumentalizzare questa giornata, a non trasformarla in un’occasione di campagna elettorale: lutto e vicinanza alla famiglia, si è ripetuto, non propaganda e retorica. Appello raccolto, direi: non c’erano bandiere, i politici presenti sono rimasti in silenzio (ne ho riconosciuti due o tre), sono stati pronunicati molti messaggi di condoglianze e solidarietà alla famiglia e in particolare a Charity, la vedova, che ha marciato in testa al corteo e assistito a quasi tutti gli interventi.
Si sono dette molte cose, a proposito di questo assassinio disumano. Si è parlato di razzismo, di intolleranza, dello stato mentale di Ferlazzo, dell’indifferenza dei passanti. Sono state lanciate accuse incrociate: quelli che hanno parlato di razzismo sono stati tacciati di superficialità, se non di catastrofismo e di opportunismo; quelli che hanno interpretato l’omicidio come gesto imprevedibile e incontenibile di un folle violento (è la posizione degli inquirenti) sono stati criticati da chi invece punta il dito contro l’indifferenza degli astanti e dei passanti (pochi ma non pochissimi, dato che le telecamere del negozio Duin, proprio di fronte al luogo dell’aggressione, avrebbero registrato «dieci paia di piedi, almeno» attorno a Ferlazzo, nei drammatici 3-4 minuti in cui Alika è stato ammazzato).
Cosa ha detto la manifestazione di ieri, a tal proposito? Secondo me, almeno due cose.
La prima è che per quanto le istituzioni si siano sforzate – come hanno obiettivamente fatto – per testimoniare e trasformare in atto la loro solidarietà nei confronti della famiglia e della comunità nigeriana di Civitanova Marche, alcuni lapsus linguistici – prontamente notati e stigmatizzati da una donna che ha parlato, come dirò dopo – dimostrano che certi pensieri sono così radicati nella mente di troppi da sembrare normali, accettabili. Sia a caldo, in un post su Facebook, sia ieri, dal vivo, il sindaco di Civitanova Marche si è detto, per esempio, favorevole da sempre alla «pacifica convivenza» e alla «tolleranza»: ma tolleranza – l’ha rimbeccato senza nominarlo una donna nigeriana ultraottantenne che vive a Civitanova da decenni – nei confronti di chi, di cosa? Tollerare è un verbo che istituisce o testimonia una disuguaglianza, una differenza di valore tra chi si sente dalla parte giusta (il tollerante) e chi viene giudicato dalla parte sbagliata (il tollerato): basta aprire un qualsiasi vocabolario per verificare che si tollerano ingiustizie, ingiurie, interruzioni, presenze sgradite (per l’appunto), non certo amici, compagni, persone con cui si convive pacificamente e in armonia.
La seconda cosa che mi ha colpito – ma non meravigliato, a dire il vero – è che le comunità nigeriane hanno espresso una posizione decisa. Hanno parlato di razzismo, senza alcuna esitazione. E l’hanno fatto con la rabbia e l’urgenza di chi vive sulla propria pelle certi episodi come una cosa normale, quotidiana. Hanno parlato di discriminazioni e vessazioni sul luogo di lavoro, di sfruttamento brutale; hanno descritto le Marche come una regione pericolosa (ne sanno qualcosa, purtroppo, Emmanuel Chidi, assassinato a Fermo nel 2016, e le persone africane prese di mira da Luca Traini a Macerata nel 2018: tutto in pochi chilometri quadrati). Hanno raccontato le difficoltà che incontrano quando devono confessare a un proprietario immobiliare che affitta una casa che sono nigeriani («Mi spiace, l’appartamento non è più disponibile»…). Una donna che vive a Macerata ha spiegato quanto sia penoso cercare di rispondere ai suoi due figli che le chiedono perché sono ritenuti – e di conseguenza si sentono – «sbagliati» (e dunque «tollerati», per tornare al vocabolario e al discorso che accennavo sopra).
La comunità nigeriana ha interpretato il gesto di Ferlazzo e quello di chi non ha tentato di fermarlo anche come un portato del razzismo quotidiano, sistemico, diffuso nell’aria che respiriamo, nei comportamenti abituali e nelle parole che usiamo con nonchalance. Hanno strumentalizzato anche loro la manifestazione? Hanno esagerato? Difficile crederlo, davvero. E a me, da quel maledetto 29 luglio, ronza in testa una domanda, che forse è demagogica e forse no: se le parti fossero state invertite, se l’aggressore fosse stato un uomo nero e l’aggredito un bianco, quelle dieci paia di piedi si sarebbero comportate allo stesso modo? O ci sarebbe stata una reazione più compatta e coesa, più energica? Se fosse stato aggredito il «tollerante», cosa sarebbe successo al «tollerato» violento, in una città e in un Paese sui cui cartelloni pubblicitari campeggiano gigantografie con sopra scritto «Basta sbarchi», con un barcone di neri all’assalto sullo sfondo?
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