Quanto ci resta del Natale?
Una ricorrenza multiuso, ormai non molto diversa dagli Halloween o dai Black Friday
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Una ricorrenza multiuso, ormai non molto diversa dagli Halloween o dai Black Friday
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Una ricorrenza multiuso, ormai non molto diversa dagli Halloween o dai Black Friday
Quanto ci resta del Natale? Poco o niente, ripetiamo ormai da anni, lamentandoci a volte seriamente o anche un poco ipocritamente, che è stato confiscato e mutato in un’altra occasione di favolosi consumi. Alla sacralità e alla trascendenza di un dono che dovrebbe essere divino, si è sostituita la volgarità e la materialità di un mito economico, la crescita, soprattutto e comunque, animata da spesa, bisogni fittizi, spreco. Infatti finirà per rimanere una sola apprensione: le spese di dicembre hanno dato una spinta al prodotto interno lordo, i bilanci familiari non sono stati terrorizzati dall’aumento dei prezzi e dalla perdita del potere d’acquisto, dai risparmi e dalla sobrietà predicataci dall’alto? Con il Natale che, a ben pensarci, è il contrario di tutto questo. Perché non è pilastro e tanto meno alternativa per un sistema economico. Continuazione o associazione, invece, come ormai capita, alla peggior “cultura” importata degli Halloween o dei Black Friday. Perché il Natale dovrebbe essere un dono di riflessione che si fonda su due priorità: quella dell’uomo, che vien prima dell’economia; quella dei poveri, che vengono prima del consumo egoistico e dei privilegiati.
Dovremmo sbattezzare anche il Natale? Altro interrogativo apparso più recentemente, tra la tolleranza e il laicismo esasperati. Non c’è chi non avverta, soprattutto se di una certa età, che il tradizionale augurio di «Buon Natale» lasci sempre più il campo, sia nei rapporti personali che in quelli mercantili, al più generico e anche ambiguo augurio di «Buone Feste». In un inserto pubblicitario di un’agenzia di viaggi persino i Weihnachtsmärkten (i tradizionali mercatini di Natale della Baviera cattolica) sono diventati Milleniummärkten. Semplice o banale osservazione semantica? No, non è così. La questione può essere un’altra: il nome di Natale, che evoca la nascita del Cristo, evento fondatore della storia e della fede cristiana, è forse diventato così politicamente e intollerabilmente scorretto o laicamente illecito nell’attuale società multiculturale che è meglio non pronunciarlo o dimenticarlo per timore di offendere qualcuno? Può essere legittimo pensare che le espressioni «Buone feste» o «Felici feste» (Happy Holidays, ovviamente) permettano di inglobare in una volta sola la Hanukkah degli ebrei, il Natale dei cristiani, l’Aïd el-Kebir dei musulmani, tante feste religiose che si muovono su uno stesso periodo di tempo (lo si è pensato sentendo alla televisione il direttore delle carceri che deve fare “una festa per tutti”). Non è però una spiegazione convincente. Con lo stesso metro dovremmo risistemare tutti i nomi di città o di monti che portano il nome di un santo (San Gottardo, San Zeno).
Ammettiamolo: non è una questione di tolleranza, di multiculturalismo o di laicità; al di là di quanto significhi il Natale per un cristiano credente, è piuttosto l’ignoranza crescente del proprio patrimonio storico di valori, di riferimenti o anche del senso di feste religiose o di simboli, che sta portando al disfacimento una società che si affida solo alla crescita economica, alla divinizzazione del mercato, al culto del PIL.
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