Risposte antropologiche alla crisi climatica
Per affrontare le sfide ambientali l’antropologo ticinese Geremia Cometti propone di ripensare il nostro approccio alla natura, ispirandosi anche alle comunità indigene
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Per affrontare le sfide ambientali l’antropologo ticinese Geremia Cometti propone di ripensare il nostro approccio alla natura, ispirandosi anche alle comunità indigene
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Per affrontare le sfide ambientali l’antropologo ticinese Geremia Cometti propone di ripensare il nostro approccio alla natura, ispirandosi anche alle comunità indigene
Geremia Cometti, partiamo proprio da questo neologismo: Antropocene. Di che cosa si tratta?
Il concetto di Antropocene è stato proposto nel 2000 dal premio Nobel della chimica Paul Crutzen e dal biologo Eugene Stoermer. Con questo termine si è voluto definire una nuova epoca geologica nella quale gli esseri umani sono capaci di rivaleggiare con le forze della natura come le attività vulcaniche e ad incidere così sulla stratigrafia terrestre e sui cicli biogeochimici come quello dell’azoto dell’acqua, del carbonio e dell’ossigeno. Seppur non ancora formalmente riconosciuto come epoca geologica, il concetto di Antropocene è oggi sempre più utilizzato nella letteratura scientifica e ha suscitato numerosi dibattiti e ricerche in vari ambiti.
Quando è iniziato l’Antropocene?
I dibattiti scientifici più vivaci riguardano proprio la datazione precisa di questa nuova epoca geologica. Negli ultimi 11.700 anni, l’umanità ha vissuto nell’Olocene, un periodo geologico interglaciale caratterizzato da una certa stabilità del clima e delle temperature. In questo periodo vi è stato un lungo e continuo processo di antropizzazione degli ecosistemi, specifico per ogni collettività umana. Ma ciò non giustifica ancora l’avvento dell’Antropocene, la quale si distingue dagli altri processi di antropizzazione per le sue implicazioni su scala globale. L’avvento della Rivoluzione industriale nel corso del XIX secolo fornirebbe una data di inizio logica per questa nuova epoca, caratterizzata dall’uso esponenziale delle risorse minerarie e dei combustibili fossili. Tuttavia, alcuni ricercatori ritengono che l’Antropocene inizi simbolicamente il 16 agosto 1945, data del primo test di un’arma nucleare da parte dell’esercito statunitense. Per due ragioni: da una parte per sottolineare che le guerre hanno un impatto enorme sul clima e dall’altra perché questa data segna la tragica fine della Seconda guerra mondiale con l’uso delle bombe nucleari in Giappone e l’inizio della ricostruzione dell’Europa. Nel dopoguerra si è infatti entrati nella “grande accelerazione”: i famosi Trenta Gloriosi in cui le attività dell’Homo sapiens hanno cominciato a modificare la composizione dell’atmosfera, riscaldandola significativamente.
Lei ha studiato l’impatto del cambiamento climatico sulle comunità locali, in particolare sulla popolazione dei Q’eros, in Perù. In che modo la percezione del cambiamento climatico delle comunità indigene può rivelarsi valida nell’attuale dibattito sull’Antropocene e sul riscaldamento globale?
Innanzitutto, bisogna sottolineare che questo neologismo etimologicamente ha un problema: quello di considerare tutti gli esseri umani come responsabili. La realtà è ben diversa perché le società europee hanno chiaramente una responsabilità storica differente da quella delle popolazioni indigene. Detto questo, penso che sia molto importante integrare il punto di vista delle società direttamente interessate dal cambiamento climatico nella discussione sul nuovo concetto di Antropocene. Questi dibattiti sono spesso dominati da un approccio causale basato sulla dicotomia tra natura e cultura, tipica delle società occidentali. Per questo motivo, la maggior parte delle ricerche sull’argomento tende a concepire relazioni deterministiche tra gli esseri umani e il cambiamento climatico. Per noi occidentali il cambiamento climatico è chiaramente spiegabile dalle attività umane che, in particolare attraverso l’emissione di gas serra nell’atmosfera, causano il riscaldamento del clima con tutte le conseguenze del caso. Queste relazioni dicotomiche tra umani e non umani però non si conciliano con il modo in cui molte società non occidentali concepiscono il mondo.
Ci può fare un esempio?
Prendiamo il caso che conosco meglio: quello dei Q’eros, un gruppo indigeno che abita in alta quota sulle Ande peruviane presso cui ho passato diverso tempo. Oggi queste comunità sono agli avamposti della crisi climatica: lo scioglimento dei ghiacciai e i cambiamenti del ciclo dell’acqua stanno avendo un impatto significativo sulla loro produzione agricola, mettono in pericolo la salute e la vita dei loro animali. Se da un lato queste popolazioni percepiscono le variazioni atmosferiche e climatiche che corrispondono alle ricerche “scientifiche” sui cambiamenti climatici nella regione, la loro spiegazione è diversa. La maggior parte dei Q’eros interpreta infatti il cambiamento climatico come il risultato dell’abbandono di alcuni riti a favore delle loro divinità – gli Apu (spiriti delle montagne) e la Pachamama (Madre Terra). In questo caso, la dicotomia natura-cultura su cui si basano gli studi convenzionali sugli effetti del cambiamento climatico non rende conto del modo in cui i Q’eros rappresentano il cambiamento climatico.
Perché, quindi, è importante dare voce a queste concezioni cosmologiche diverse?
L’antropologia ci permette di capire che altri gruppi in tutto il mondo hanno concepito e stanno concependo altri modi di vivere che derivano da modi diversi d’interazione tra esseri umani e non umani. Ho usato volutamente anche il passato perché questo sguardo sulle altre società può essere sincronico (sulle società contemporanee) o diacronico (sulle società del passato). Per esempio, in Europa si osservano delle forme di agricoltura dette non convenzionali che si ispirano al passato. L’obiettivo non è quello di trasporre questi modelli (passati o presenti) alle nostre società contemporanee; piuttosto, è quello di comprenderli come fonti di ispirazione che ci permettono di immaginare nuove forme di interazione con i non umani, diverse da quelle che la modernità occidentale ha messo in atto a partire soprattutto dalla rivoluzione industriale.
Concretamente, cosa significa?
Viviamo in una società dominata dagli esseri umani e le nostre istituzioni sono molto antropocentriche. Ad esempio, il diritto internazionale, così come quello d’origine greco-romana, mette l’uomo davanti a tutto. Quello che per noi è una semplice risorsa naturale, de proteggere o da sfruttare, per altre società è un elemento che fa parte di un collettivo formato da esseri umani e non umani. Penso quindi che occorrerebbe riflettere su una concezione del diritto diversa. Non dico di dare dei diritti alla natura – che è un’entità astratta – ma magari a dei luoghi di vita particolari. In Nuova Zelanda, dopo una lotta durata oltre cent’anni, i Maori nel 2017 hanno ottenuto dal parlamento nazionale il riconoscimento giuridico di un fiume sacro, il Whanganui. In termini giuridici, i diritti degli esseri umani sono subordinati a quelli del fiume. È un esempio per dire che, forse, cambiando questa mentalità troppo antropocentrica possiamo trovare delle soluzioni innovative per far fronte al cambiamento climatico e per cercare di cambiare la relazione con tutti quegli elementi naturali che fanno parte del nostro quotidiano e che permettono la nostra stessa sopravvivenza.
È andato a studiare l’impatto dello scioglimento dei ghiacciai nelle lontane Ande, ma osserviamo lo stesso fenomeno nelle nostre Alpi. Vede delle similitudini?
Così come nelle Ande, i ghiacciai alpini si stanno fondendo ad un ritmo sostenuto. Le ricerche si concentrano molto sulla spiegazione scientifica dello scioglimento meno su come le società stanno vivendo questo cambiamento del paesaggio alpino. Nel mio prossimo progetto di ricerca voglio infatti analizzare come questo cambiamento stia modificando o meno la relazione con gli ecosistemi alpini. La scomparsa di un ghiacciaio è un’enorme perdita scientifica perché sono dei veri e propri archivi viventi del clima del nostro passato ma lo scioglimento dei ghiacciai implica anche un cambiamento nell’esperienza visiva, sonora ma anche affettiva per i residenti, per i glaciologi o per gli alpinisti. Per esempio negli ultimi anni sono stati organizzati in Svizzera alcuni funerali e processioni legati alla scomparsa dei ghiacciai alpini.
Geremia Cometti, un’ultima domanda: da antropologo, cosa ne pensa del fatto che anche in Occidente sempre più persone mettono in discussione – anche per i propri tornaconti politici – la versione scientifica del cambiamento climatico causato dall’uomo e l’urgenza di agire?
Le società tutte, anche la nostra, stanno vivendo un periodo molto particolare. È indubbio che la pandemia ha tolto molte certezze, anche nei confronti della scienza stessa. Se per quanto riguarda i vaccini posso capire che una parte della popolazione abbia sviluppato una visione critica della medicina, nel caso del cambiamento climatico mi è più difficile capire questa diffidenza. Ci sono molti interessi in gioco ma non abbiamo più tempo da perdere su questo dibattito. Ora bisogna concentrarsi sulle soluzioni e sulla nostra maniera di interagire con l’ambiente, e l’antropologia con il suo approccio comparativo può dare una mano in questo senso.
Articolo scritto per laRegione
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