Dal nostro corrispondente da Mosca
“L’operazione militare speciale” voluta da Putin il 24 febbraio 2022 vive di paradossi. Per esempio, come è noto, gli obbiettivi dichiarati dell’invasione sono solo parzialmente indirizzati a proteggere le popolazioni russofone del Donbas, ma sono piuttosto globali, sistemici. Putin si era prefisso, annunciando l’invasione dell’Ucraina, due grandi obbiettivi:
1. sottomettere Kiev impedendo l’ulteriore allargamento della Nato;
2. “dedollarizzare” l’economia russa e in prospettiva quella internazionale.
Paradossalmente però i risultati che Putin sta ottenendo vanno – direbbe Fabrizio De André – “in direzione ostinata e contraria”
Con il primo obiettivo, sappiamo com’è andata. Svezia e Finlandia sono entrate nella Alleanza Atlantica e se, potessero, lo farebbero anche Moldavia, Georgia e Armenia, oltre che ovviamente l’Ucraina.
L’obbiettivo di ridurre il peso del dollaro (e dell’euro), inizialmente, invece, sembrava poter diventare realtà. Dopo un primo crollo devastante nel marzo 2022, il rublo si rafforzò per molti mesi, giungendo ad essere scambiato 1 a 50 contro dollaro ed euro, e questo grazie all’imposizione dell’acquisto in rubli ai paesi occidentali di gas e petrolio, nonché al crollo delle importazioni straniere. L’Economist, nel suo numero di Capodanno, si spinse a dire che il rublo “è la divisa più performante dell’anno”.
I mesi successivi, però, hanno deluso le aspettative del Cremlino. L’aumento dei salari in Russia dovuto alla riduzione della forza-lavoro disponibile (in parte quella più qualificata, esule all’estero, e in parte arruolata nell’esercito) hanno spinto le importazioni mentre i grandi gruppi finanziari russi hanno iniziato a fare incetta di “valuta pregiata”. A far decollare il dollaro ci ha pensato anche la valuta del “Dragone” cinese. La banca centrale russa, nello scorso anno e mezzo, aveva accumulato grandi quantità di yuan, salvo dover poi constatare che non sono molti i paesi del globo terracqueo ad accettarli come mezzo di scambio.
L’avanzata della “moneta non-amica” ha subito due modesti rallentamenti quando in estate Elvira Nabiullina, la presidente della Banca Centrale russa, ha aumentato del 3,5% i tassi d’interesse. Panacee che hanno solo frenato momentaneamente la marcia trionfale della banconota americana e l’aumento dell’inflazione. Venerdì scorso, in serata, con un cambio fissato a 97,97 contro rublo, il dollaro ha raggiunto il suo massimo storico, superando persino le vette raggiunte nei primi giorni di guerra. E in apertura dei mercati di oggi, la moneta americana ha continuato a crescere, avvicinandosi alla “quota psicologica” di 100 a 1 contro rublo.
Così il dollaro, indicato dal Cremlino come simbolo di un sistema ingiusto e ostile – modello dell’imperialismo mondiale, avremmo detto negli Anni Settanta dello scorso secolo – oggi resta lì seduto, verde e mortifero, sui grattacieli della City di Mosca, a godersi il panorama. Piaccia o no allo zar, le valute mondiali dei paesi ostili rimangono un’ancora di salvezza per quella parte, considerevole, delle aziende e dell’alta borghesia russe che valutano i propri interessi senza usare schemi ideologici. Approfittando di questa circostanza, La valuta statunitense, ovvio, si comporta in modo poco nobile, non esitando a gonfiare il suo prezzo; d’altra parte, il dollaro è nelle tasche dei russi da decenni e non vorrebbe abbandonarli nemmeno in un periodo così difficile di confronto geopolitico.
I dati che snocciolano gli economisti, nella loro freddezza, sono anch’essi implacabili. La bilancia commerciale della Federazione Russa è scesa da 204 miliardi di dollari nel periodo gennaio-luglio 2022 a 64 miliardi di dollari nei primi 7 mesi di quest’anno; le esportazioni, sono scese a 239 miliardi di dollari, e le importazioni risultano aumentate a 175 miliardi di dollari.
La fuga dei capitali, problema cronico della Russia sin dal 1991, è continuata anch’essa imperterrita, nonostante le varie amnistie decise da Putin per chi tiene i propri tesori nei paradisi fiscali, malgrado le sanzioni e i congelamenti dei beni all’estero degli oligarchi . Nel 2022, il deflusso è addirittura triplicato, raggiungendo la cifra record di 230 miliardi di dollari (12% del PIL).
Queste “delusioni” che silenziosamente Vladimir Putin sta, giorno dopo giorno, toccando con mano, sono intimamente legate all’idea che la “volontà politica” in generale, e la sua in particolare, possa forzare il processo storico. Dunque se in prospettiva il dollaro non avrà più il ruolo giocato dal secondo dopoguerra, ebbene la politica, la sua in particolare, può segnare delle discontinuità forti e decisive già adesso. Un approccio “interventista” che ogni volta stupisce in un leader che a ogni piè sospinto dichiara di essere contro “le ipotesi rivoluzionarie” (“In Russia abbiamo avuto tre rivoluzioni nel XX secolo, direi che bastano” ha recentemente riaffermato) e di voler seguire una “strada evolutiva”.
Il suo problema, è evidente: non è tanto quello di voler perseguire legittimi obiettivi politici (ridurre il peso e il ruolo americano nel mondo), bensì quello dei metodi.
Nell’immagine: il rublo sempre più giù