Svizzera rampognata da Washington per lassismo
E intanto gli Stati Uniti pensano ai loro buoni affari, che gli vengono garantiti anche dalla guerra
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E intanto gli Stati Uniti pensano ai loro buoni affari, che gli vengono garantiti anche dalla guerra
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E intanto gli Stati Uniti pensano ai loro buoni affari, che gli vengono garantiti anche dalla guerra
Immaginiamoci che da qualche commissione, istituzione o paraistituzione europea, da Bruxelles, per farla breve, fossero giunte, letteralmente, queste accuse: “La Svizzera è uno dei principali complici del dittatore russo Vladimir Putin e dei suoi accoliti”; “C’è qualcosa di seriamente guasto in Svizzera: o c’è della criminalità oppure dell’incompetenza nelle forze dell’ordine di questo paese”; “La Svizzera è lassista” e il Pubblico Ministero della Confederazione risulta “totalmente impotente negli affari di corruzione”, tanto che gli studi legali (gli avvocati) continuano a creare bellamente “strutture di trust” per nascondere i patrimoni russi.
Sarebbe stato il finimondo: consiglieri federali in subbuglio, Dipartimento degli Esteri subito svegliato per picchiar sodo sulla testa di Ursula von der Leyen, richiamo o rinvio di ambasciatori, UDC trionfante e scatenata a chiedere una rottura definitiva con l’UE, nostri consiglieri nazionali (i soliti, superfluo farne il nome) proponenti alti muri, rafforzamento militare ai confini, accelerazione nell’acquisto degli aerei da combattimento, fors’anche adesione immediata alla Nato come scelta inevitabile di neutralità attiva.
Quelle accuse sono però giunte da una commissione del Congresso americano, da parlamentari ed “esperti” americani convocati a discutere sulle relazioni Stati Uniti-Svizzera e persino da William Browder, finanziere e politico americano, di origine britannica (che, data la sua storia complicata, dovrebbe intendersene: fondatore dell’Hermitage Fund, il maggior investitore di portafoglio straniero in Russia, importante azionista di Gazprom, processato in Russia in contumacia per frode fiscale e condannato con l’amico avvocato Magnitsky; fu poi chiamato a testimoniare alla Commissione giudiziaria del Senato degli Stati Uniti, riuscendo a far approvare, in memoria dell’amico morto in prigione, il Global Magnitsky Act del 2016, che autorizza il governo americano a sanzionare i funzionari governativi stranieri ritenuti trasgressori dei diritti umani e quindi a congelare i loro beni).
Non è invece successo un gran che. Dalla parte ufficiale solo qualche timida rimostranza, da buoni e servizievoli vassalli della “Great America”; la destra sovranista silente o indifferente, forse perché non era l’Europa a protestare. La sinistra, invece, ha trovato una indiretta conferma di quanto rimprovera sovente: inadempienze nella lotta al denaro sporco.
Quelle accuse, un distillato della classica arroganza americana (v. la significativa e documentata intervista a Jeffrey Sachs, qui riportata) disturbano, più che la Svizzera, la verità dei fatti. Anche per un che di ipocrisia.
Se c’è qualcuno che sta ricavando grandi vantaggi economici e grossi profitti dalla guerra in Ucraina, tanto da generare il sospetto che quasi gli accomoda più un prolungamento dello stato bellicoso, persino con intemperanze verbali da vecchio West, che non la ricerca di una via d’uscita, è facilmente dimostrabile che è l’America di Biden. Bastano pochi esempi.
Gli Stati Uniti vogliono diventare nel 2020 esportatori netti di energia. La produzione di “shale gas” e “shale oil”, produzione di gas e petrolio dagli scisti grazie al progressi tecnici della fratturazione idraulica, denunciata dagli ecologisti, dovrebbe permetterlo. Cominciano quindi a costruire impianti di gas naturale liquefatto sul litorale del Golfo del Messico, per esportare il sovrappiù e rendersi concorrenti con la Russia sul mercato europeo, ciò che spiega anche le minacce reiterate di Washington contro la costruzione della “pipeline” Nord Stream che collegherebbe, nel Baltico, la Russia alla Germania. Ci sono però perlomeno tre ostacoli che si sovrappongono: la domanda di petrolio stagna, l’economia ne brucia sempre meno e di conseguenza il prezzo di vendita cala; il costo d’estrazione dagli scisti è elevato (esempio: il costo di estrazione di un barile di petrolio nell’Arabia Saudita è di 4 dollari, negli Stati Uniti di 40), comunque quello russo, per petrolio e gas, è decisamente miglior mercato e inespugnabile in Europa, che ne dipende sempre più fortemente; l’opposizione interna degli ecologisti contro l’estrazione da scisti o in mare aperto o in Alaska è fortissima. La guerra in Ucraina, con il quasi embargo europeo sulla produzione russa, porta il prezzo di petrolio e gas alle stelle, induce alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, tra cui il gas liquefatto americano, rende ancora concorrenziale il costo elevato dell’estrazione dagli scisti, rende la vita facile a Biden, nonostante le sue promesse durante la campagna elettorale, nel concedere nuovi permessi di sfruttamento (si calcola per una superficie pari a 582 chilometri quadrati di “terre federali”, con nuovi siti di estrazione nel Dakota del Nord, nell’Oklahoma, nell’Arkansas e nel nord del Texas) per aumentare l’offerta, ridurre i prezzi dei carburanti combattendo anche l’inflazione crescente, poter esportare in Europa e Asia, dar vita a diecine di nuove società di estrazione (dove denaro e investimenti affluiscono perché promettono rendimenti sicuri dell’8-9 per cento). Insomma, sarà cinico dirlo, ma la guerra è un bell’affare e se dura ancora qualche tempo sistemerà molte cose per Biden e l’America.
Aggiungiamo a questo esempio il generoso investimento (ci aggiriamo ormai sui 60 miliardi di dollari) destinato in massima parte ad armare l’Ucraina attraverso le forniture dirette del Pentagono. Tanto che, notizia di 48 ore fa, si pone ora il problema di una ricostituzione degli stock per lo stesso Pentagono. Lockheed Martin, ad esempio, ha indicato in questi giorni di voler raddoppiare il suo ritmo di produzione dei missili Javelin, da 2.100 a 4.000 all’anno, “in modo che la nostra catena di approvvigionamento si adegui prontamente” (dichiarazione di Jem Taiclet, Ceo della Lockheed, sul canale CBS, lo scorso 8 maggio). Tra l’altro armi non più acquistate dal Pentagono da 18 anni, come gli Stinger (o “pungiglioni”, missili contraerea), tanto che non si trovano più i pezzi elettronici di ricambio della “testa” (del pungiglione, appunto) sono stati ora… rivalutati, dal governo, pagandone 1.400 riciclati e inviati in Ucraina. Altro bell’affare.
Probabilmente anche il problema dell’inflazione, ritornata galoppante, può trovare una mezza soluzione. Il dollaro, infatti, si apprezza; si può importare a miglior prezzo e non è neppure un caso che Biden abbia in pratica anche annullato il decreto protezionista di Trump, da 300 miliardi di dollari, sui prodotti cinesi: serviranno anch’essi a calmare i prezzi interni. È vero, diventano però anche più cari i prodotti da esportare, soprattutto i prodotti agricoli, come il grano o la soia, divenuti ora una alternativa al grano russo o ucraino; ma i maggior prezzi fanno contenti gli agricoltori americani del Middle West che tra poco si apprestano a votare. Altro bell’affare.
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