Ho respirato bellezza. Nelle settimane precedenti il festival l’ho respirata, incrociata, cercata. E lei si è manifestata come un Epifania sotto molteplici vesti. Negli ascolti di album dedicati agli Einsturzunde o ai Jesus & the Mary Chain (amori di gioventù rispolverati a fronte delle notizie dei nuovi rispettivi tour) e,oltre ad esser in fregola per il ritorno a marzo dei La Crus, sul versante professionale, producendo e presentando una serata dedicata a Fabrizio De André, una vissuta sempre tra le mura dell’Auditorio della RSI con Paolo Fresu e, proprio alla vigilia del Festival aprendo una pagina entusiasmante dedicata a Michele Straniero e ai Cantacronache.
Ho interagito con la bellezza, ho dialogato dunque con la bellezza, la poesia, l’urgenza espressiva, le radici e i valori che la musica e la canzone possono ancora vantare, e che spesso come molti pretendo. L’ho fatto entrando in comunione con artisti di spessore e sostanza; anche con leggerezza, affrancati dalla pedanteria che spesso è proprio lì, dietro l’angolo a zavorrare note e parole che invece hanno ancora la forza di librarsi nel cielo. “Mi sono pensato felice!”
E poi arriva Sanremo, che quando ti coglie sei già appesantito neanche fossimo convitati a un matrimonio pugliese; quelli che scapperesti dopo gli antipasti ma, armato di Buscopan e galanteria affronti stoicamente per le successive 7 portate.
Ci si arriva abbruttiti da quella macchina mediatica e promozionale devastante che è stata la lunga vigilia. La liturgia la conosci ma ti sorprende ogni anno. E ti vien subito voglia di altre “fughe”.
Perciò non voglio scordare un altro paio di “magic moments” che consiglio di recuperare: ai Grammy Awards americani è tornata sul palco Tracy Chapman, chitarra a tracolla, capelli grigi e quella tenera profonda malinconia dello sguardo. È tornata a cantare “Fast car”, di nuovo in auge grazie a tale Luke Combs, star del country che l’ha sdoganata tra i giovani. Loro due sul palco per un momento catartico con Taylor Swift, Lana Del Ray e Ophra Winfrey estasiate in platea. Un’ antidiva, la Tracy, affrancata dalla logica dei social e dei numeri degli streaming, capace di lacerare, a distanza di decenni, le viscere di milioni di giovani soffiando sul sogno. Un palco, quello dei Grammy Award dove chiunque scaraventato dall’annuale edizione di Sanremo verrebbe disintegrato dopo 10 secondi.
E per concludere gli antefatti durante la prima serata del festival ho fatto zapping con un documentario a dir poco stellare dedicato alla genesi di “We are the world”, canzone registrata in una notte (!) rinchiudendo in una sala una 50.ina di superstar, tra cui Dylan, Stevie Wonder, il Boss, Michael Jackson fresco fresco di “Thriller”, Lionel Ritchie, Ray Charles sotto l’egida di Quincy Jones. Che, all’entrata dello studio appese il seguente cartello: “lascia il tuo ego alla porta”.
Un gioco delirante, psichedelico che mi acchiappava neanche avessi sniffato plutonio, e che ho pure reiterato: sovrapporre al Boss un biascicante Sangiovanni, mixare quel genio di Stevie Wonder a un Pokemon con la cresta rosa che si professa punk o la contagiosa bonomia di Ray Charles all’ orsetto barzotto che invoca la cessazione delle ostilità per poi, abiurare e connotare il sostantivo “politica” come fosse una bestemmia non ha prezzo.
Sarà inoltre l’età, sarà un inizio di acufene o il mio plasma 55 pollici datato: ma che fatica capire le parole di molte canzoni o pseudo tali. Quindi sottoscrivo una proposta di un amico di FB che invoca nell’ economia produttiva della Rai investire due spicci per sottotitolare il 90% dei cantanti in gara alla pagina 777. Aiuterebbe la comprensione dei testi. Ma forse, a pensarci bene è meglio così.
Il festival, dunque, che dopo l’infinita e tediosa entrata in materia nel prosieguo delle serate si è confermato per quello che sappiamo esser da tempo: un avanspettacolo bulimico d’arte varia che frulla volti conosciuti e probabili meteore che, da padre, mi auguro abbiano un “piano b” nella vita. Pruriginose trasparenze, cosce e ombelichi ammiccanti, outfit che sfidano la gravità e il senso del ridicolo; mascotte inquietanti e il liscio in play back (che è notoriamente una bestemmia). Califano, Mare fuori, Cutugno e condite da spruzzate di appelli a favore della pace. E come scordar l’umiliazione impartita alla superstar dianetica hollywoodiana, ormai di diritto negli annali del festival? E l’autotune e le fastidiose risate a denti stretti? E le vertiginose cadute di stile? E il dolore, che è sempre arduo maneggiare in televisione soprattutto nella cornice di Sanremo quando il senso del pudore è un valore in caduta libera? O che l’esibizione delle proprie fragilità, disperazioni o drammi contribuisce all’audience? Ma se al termine dello strazio materno ci infili Annalisa in mutande e reggicalze due domande sugli autori sorgono spontanee. E ben prima dell’affaire Travolta per il quale, fossi in Italia, chiederei il rimborso del canone. O quanto meno lo stipendio degli autori stessi. È un festival che trita tutto, insomma, senza guardar in volto nessuno. E quel tutto diventa chiacchiericcio da social, poltiglia utile a concimare programmi radiotelevisivi per i prossimi mesi, nutrire editoriali e quindi l’epica del festival stesso.
Sanremo è quel frappè in cui la canzone si è rivelata mai come quest’anno “una copia sbiadita di mille riassunti” per citare Samuele Bersani. Quella canzone che dovrebbe esser ancora centrale nell’economia della kermesse e che flirta sempre più con la propria omologazione al ribasso. Si autocita giocando col prevedibile, lo scontato e il dozzinale. Quell’ effetto voluto e cercato del “dejà vu” consolatorio per offrire la continuità estetica e sonora di cui si nutre da mò. Nessun guizzo o invenzione a scompaginare le carte, a scardinare quel senso di ripetitività che ammorba una parte importante del pop italico. L’unica creatività manifesta è finalizzata all’apparire, nella ricerca spasmodica dell’effetto scenico, del look originale al netto del probabile sciopero degli shampisti in Riviera.
D’altronde se la più parte degli artisti in gara si affida a quei pochi autori, gli hit makers delle ultime stagioni il risultato è probabile sia proprio questo. Che amplifica il testosterone del Supremo Garante della centralità del festival nell’economia della musica leggera italiana (Amadeus), il cui unico credo è la rotazione massiccia delle canzoni sui network radiofonici, plasmati e piallati ormai dai tormentoni suffragati dalla dittatura degli streaming da esibire, dei click e anche con spocchia. E quante volte Ama lo ripeteva nel presentare i pargoli sul palco. E che tristezza quel rapper che si è vantato “urbi et orbi” dei suoi cento milioni di streaming; che a occhio e croce generano 6000 frs ca. così, per dire.
Interessante a tal proposito la Gabanelli che in questi giorni ha pubblicato sul “Corriere della sera” l’inganno dei falsi follower; che puoi acquistare in quantità industriale per garantirti quell’ effimera fama e relativi introiti giusto il tempo di una stagione.
La narrazione di Sanremo è questa, supportata da infiniti programmi pomeridiani proni al festival, dove tutto è meraviglia, ogni cosa è “pazzesca”, incredibile e stupefacente.
Annalisa, The Kolors e Dargen sono tre esempi di come riproporre sé stessi all’infinito per esigenze di industriali e marketing. Che rispondono a una tendenza ormai compromessa della qualità artistica e produttiva della canzone. Sebbene firmate da una pletora di autori, risultano comunque sbiadite, stereotipate, buone per le feste di piazza, le baby dance nei villaggi vacanza, tra le disco crociere dei balli di gruppo innaffiati di mojito & Paola e Chiara (imbarazzanti nella conduzione) o per le scampagnate scolastiche sull’ auto postale delle medie. Filastrocche da mandare a memoria per intenderci. Come i brani di Alfa, Mr. Rain, Il Tre e quella pletora di volti e voci che abbiamo scoperto, e spero abbandonate all’istante, sul palco dell’Ariston. Canzoni trite e ritrite, imbarazzanti per forma e sostanza al netto di qualche “messaggio” anche encomiabile che si perde nella povertà musicale e nella sclerotica impaginazione del festival. Avviluppata tra divani in platea, spot pubblicitari, riflessioni sul dramma delle morti sul lavoro (lodevole la performance di Jannacci e Massini), le autopromozioni Rai, i collegamenti con la “ggente” stipata in piazza per Rosa Chemical e i suoi peni volanti o sulla nave a dinoccolarsi per Bresh. Un simulacro di pseudo felicità e divertimento forzato trasmesso sul televisore casalingo perché l’imperativo a Sanremo è divertirsi. Anche se i trattori e la mucca Ercolina sono in arrivo.
Breve questione di lana caprina: il “Va pensiero” di Verdi al posto di un’aria di Puccini (che so il “Nessun dorma”), di cui ricorre il centenario della morte per promuovere la grande notte dell’opera all’Arena di Verona? Ahh questi autori che tra Ibra, Travolta, un Fiorello sottotono e un’impaginazione del programma debole, sclerotica e discutibile meritano un turno di riposo.
Ma ciò che più conta, si fa per dire, è che Amadeus ha modificato il DNA di Sanremo e della sua ambasciatrice, ridotta ad ancella: la canzone. Si è messo di buzzo buono e nel volgere di alcuni anni lo ha modificato come il dott. Frankenstein manipolava pezzi di membra umane riciclate. Il risultato lo conosciamo, e va a scapito della ricerca di una qualità oggettiva, pur nell’alveo di quella leggerezza che rimane valore irrinunciabile e sacrosanto. Vuol convincerci attraverso la sua narrazione, che la musica italiana che conta, erede del bel canto, sia solo e unicamente consacrata a Sanremo. E che il festival sia ancora l’unico specchio aderente al nostro presente.
Deludenti i Negramaro che hanno portano in dote al festival un pezzo “che più Negramaro non si può”. E ti chiedi: perché Sangiorgi presta la sua penna migliore scrivendo per altri? Rimane un mistero. Debole la Mannoia che salva con l’interpretazione un brano incolore ma dai nobili intenti e che profuma di fragranze conosciute: da “Madame Falena” di De Sfroos a Mannarino. Modesta lo è pure quella della Bertè che ormai, oltre a buttarci addosso le sue invidiabili gambe, si autocelebra ostinandosi a cantare come avesse trent’anni di meno. Col rischio di auto demolir se stessa e il suo mito. Se poi finisse di procrastinare quel suo esser ribelle e “rock” quando da anni è ospite fissa di svariati talent televisivi sarebbe più credibile, no? Ma le si vuol bene a prescindere, non fosse che per la tenerezza che suscita. Interessante la fotografia sulla realtà periferica, dalla quale proviene, che propone Mahmood, se si capissero meglio le parole. Arredata da un urban per nulla scontato e arricchito dai melismi arabeggianti della sua voce, merita ascolti meno frettolosi. Apprezzabile lo stile e la classe di Diodato, una garanzia che ha il pregio di firmarsi i pezzi da solo, e che almeno sa cantare, e bene. Così come i Santi Francesi, per nulla scontati nell’attuale contingenza del Festival. Al pari di Ghali, un tempo il migliore della sua generazione che firma un testo significativo purtroppo ingabbiato da una musicalità e arrangiamenti che ne soffocano la portata.
Apprezzabili e dignitosi rimangono anche al cospetto di una Giorgia (Todrani, ça va sans dire!) in gran spolvero nebulizza i concorrenti in gara. Per classe innata, esperienza, maturità artistica, tecnica vocale e quel raro bouquet interpretativo che si ritrova in gola. Da spellarsi le mani. Ha incantato con apparente semplicità come, con le debite proporzioni, Eros, Morandi e Mengoni, la sera precedente. Cantando e interpretando “semplicemente” del pop d’autore l’Ariston è crollato. Dovremmo aprire il capitolo “personalità”, che poi è quell’ X Factor che fa la differenza e di cui molti difettano. E sulla quale si investe sempre meno perché richiede tempo e denari per scovarla, affinarla e renderla riconoscibile attraverso i tuoi talenti, piccoli o grandi che siano. Quella “personalità” avulsa dalle logiche del business dei numeri virtuali e dei click, dei passaggi radiofonici, di Tik Tok e dello sfoggio della mutanda.
Angelina Mango e Geolier, che si sono infine contesi la vittoria, sono quelli che paiono averla innata, seppur distanti per contesto, esperienze, grammatica musicale, contenuti e pubblici di riferimento. La prima è davvero esplosiva e sembra nata per questa professione, l’altro vanta una narrazione veritiera e credibile. Ed entrambi hanno pure la “cazzimma”. Le due canzoni non sono certo memorabili ma dalla loro i due artisti hanno la “credibilità” e le attenzioni che suscitano da tempo.
Di più a Sanremo quest’anno non si poteva chiedere. E invece no: chiudendo l’articolo e sbirciando la serata dedicata ai duetti, “ringrazio” anche a nome vostro Amadeus, la discografia italiana, quella di peso per intenderci, ma anche la moltitudine dei network radiofonici e i talent televisivi per aver contribuito scientemente a depauperare quel patrimonio che è la canzone italiana, anche quella leggera. Che un tempo, attraverso una rete di autori ispirati e interpreti capaci – ai quali si dava il tempo di crescere, formarsi, sperimentare, istruirsi – con l’ausilio di autentici direttori artistici e discografici illuminati che non miravano all’effimero digitale, questa canzone seminava bellezza ed emozioni che hanno ancora la forza di attraversare il tempo e parlarci. Ma “l’evoluzione inciampa”, la mutazione è ormai stabile.
Nell’immagine: Angelina Mango, vincitrice del Festival, nella sua esibizione finale