Ancora a proposito di politica estera USA

Quando si ibridano riflessi infantil-psichiatrici e calcoli economici sulle spalle altrui


Marco Züblin
Marco Züblin
Ancora a proposito di politica estera USA

Due notizie si rincorrono, senza legame apparente, ma offrono una chiave di lettura simile, non inedita ma da non dimenticare mai. Da una parte le nuove manifestazioni a Cuba per il panem (e anche per un po’ di circenses, conoscendo quel mondo) e la inconsistente reazione americana, dall’altra la partenza dei militari USA dall’Afghanistan, con la prevedibile conseguente ondata talebana a travolgere tutto e tutti. In entrambi i casi, esempi del modo in cui gli Stati Uniti gestiscono la propria politica estera, che essi vorrebbero fosse quello adottato anche dai loro alleati occidentali.

A Cuba si sceglie di continuare ad asfissiare la popolazione tramite un decennale embargo, invece di togliere il bloqueo sic et simpliciter e così dinamitare dall’interno un regime e una sensibilità i cui antichi meriti sono ormai annegati in un tragico anacronismo e nella miseria della gente, miseria sempre meno sopportabile perché quotidianamente messa a confronto – per interposti media e internet – con il benessere (mediatico, pubblicitario; quindi apparente, ma tanto basta) del resto del mondo. Biden, che dimostra anche qui di essere una mezza figura, non ha neppure ripreso le caute aperture di Obama, limitandosi a bloccare l’escalation di segno opposto voluta da Trump. Quindi, non si incoraggia indirettamente, cioè con la forza della globalizzazione capitalistica, una transizione forzata dalle cose per continuare invece a fomentare un rovesciamento violento del regime, tramite la frustrazione nata dal progressivo strangolamento economico dei cittadini. Un atteggiamento che ha un che di infantile, forse di psichiatrico; la vendetta per l’onta subita (da oltre mezzo secolo, una rivoluzione caraibica a poche miglia dalle proprie coste, immaginatevi la frustrazione…), più che atti ragionevoli in grado di arrivare a un risultato.

In Afghanistan, decine di migliaia di traduttori dovranno essere ricollocate perché – come ogni collaborazionista al momento della sconfitta – rischiano la vita. Un simbolo di quanto gli americani lasciano nel Paese, cioè macerie senza un briciolo di risultati, almeno per coloro che si era andati asseritamente a salvare e a proteggere; non parliamo di quanto stanno facendo i tagliagole talebani e i signori della guerra a tutti coloro che non si omologano e che, in qualsiasi modo, furono contigui all’occupante americano. Naturalmente a nessuno a Washington interessava il destino di quel lontano territorio, che è servito, classicamente, a regolare i conti prima con Mosca, finanziando gli stessi talebani in funzione ideologicamente antisovietica per poi ritrovarseli prevedibilmente nemici, ma soprattutto serve a foraggiare l’industria bellica interna (i cui interessi economici sono una delle chiavi di lettura della politica estera americana; l’Iraq insegna, una sorta di tragico “capolavoro” in questo senso). Si tratta, qui come altrove, di banali e cinici calcoli economici uniti a riflessi infantilmente psicologici, camuffati da discorsi sulla difesa dei valori della libertà e sulla tutela dell’Occidente democratico; tra l’altro, sulle spalle di migliaia di ragazzi mandati a combattere senza alcuna giustificazione politica, strategica o di sicurezza.

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