Quando L’Avana fa rima con Tirana
Una testimonianza della scrittrice Elvira Dones
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Una testimonianza della scrittrice Elvira Dones
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Durante gli anni di “regime” di Fulgencio Batista, fino al ’59, Cuba era stata una sorta di “locale notturno” per americani in cerca di svago ed esotismo: un’isola troppo vicina ad un impero. Fino alla rivoluzione castrista che cambiò tutto in nome del comunismo, instaurando un altro “regime”.
Ma vogliamo dire che Castro diventò un dittatore che regnò con il pugno di ferro, facendo piazza pulita nel campo dei suoi ex compagni della rivoluzione cubana e non solo? Vogliamo dire che Guevara (più idealista di Castro, ma altrettanto feroce) mise al muro e fucilò ogni voce scomoda, nel nome della rivoluzione?
Vogliamo dire che Cuba diventò così un paese dove le donne per mettere del pane sul tavolo ai loro figli dovettero diventare delle jineteras, diciamo, per intenderci, delle compiacenti accompagnatrici di turisti?
Certo, l’istruzione gratuita per tutti; il sistema sanitario gratuito per tutti. Era il comunismo, con i suoi capisaldi, i suoi principi, la sua strenua battaglia contro l’imperialismo americano.
Era ed è qualcosa che conosco, non per essere stata a Cuba, ma per aver vissuto drammaticamente nel mio paese d’origine, episodi e situazioni che leggendo di Cuba riemergono e ancora bruciano nella mia memoria.
Era la prima settimana di agosto del 1991, quando circa ventimila albanesi sfondarono i muri delle ambasciate occidentali nella capitale, Tirana, chiedendo asilo politico.
Ricordo che Francesco De Gregori cantava in Piazza Grande a Locarno. Il mio compagno aveva voluto farmi un regalo, andare a vedere il concerto; la piazza era gremita.
Io piangevo, disperatamente singhiozzavo, e di quel concerto non ricordo nulla tranne la mia angoscia.
Non smettevo di ripetere al mio compagno: “li ammazzeranno come dei cani, tutti quanti. Le ambasciate li consegneranno alle autorità. Li ammazzeranno, tutti quanti”.
E pensavo al mio amatissimo fratello ventenne – che per colpa della mia fuga dall’Albania e degli echi che aveva suscitato, era stato letteralmente buttato fuori dall’Accademia delle arti. Era entrato in una di quelle ambasciate, mio fratello?
Andò bene in quell’inizio agosto ai disperati rifugiati nelle ambasciate. Ammazzare ventimila “cani” era pressoché impossibile. E la dittatura più feroce d’Europa per quasi cinquant’anni era agli sgoccioli, grazie alla Perestroika di Gorbachev e alla caduta del muro di Berlino.
Ai “cani” le stanze dei bottoni europei riuscirono a concedere un salvacondotto verso l’Occidente. Lunga storia che da qualche parte ho già descritto e raccontato…
Io non c’entro con Cuba, ma c’entro eccome.
Ero cresciuta in una famiglia e in un paese dove bisognava controllare ogni parola – pure il respiro. “Attenta a ciò che dici, xhani im“, supplicava mio padre. “Kujdes”, “Watch your mouth”. “Aguas”.
Bisognava mostrarsi contenti, fuori dalle mura di casa. E io contenta lo sono stata, per anni, da bambina felice che veniva da una famiglia privilegiata, perchè il lavaggio del cervello funzionava: eravamo il paese più felice del mondo, e noi, i bambini più felici al mondo.
Così la pensai più o meno fino all’età di 16 anni, quando un mio carissimo amico del liceo, un giorno, si impiccò, e i servizi segreti albanesi vennero a scuola al mattino, facendo l’appello, controllando le porte di entrata e uscita perché il suicidio era un affronto “al partito, allo stato e alla causa del comunismo”, e noi non dovevamo partecipare al funerale di un nemico.
Qualche anno più tardi, un altro caro amico venne condannato a due anni di lavori forzati nel nord del paese, perché nello zaino di scuola il compagno di banco gli trovò un libro di Freud, in tedesco, e lo denunciò. Poco per volta l’ovatta che avevo nel cervello si dissipò, ma rimasi fedele a quel monito di mio padre: attenta a ciò che dici, figlia, che un giorno tu ci rovinerai. Infatti li rovinai, tutti quanti, con la mia fuga. Ma questa è un’altra storia.
Anche nella mia Albania, il regime dittatoriale partì con grandi slogan, grandissime promesse; il popolo, all’inizio, forse arrivò pure a crederci, ma per vedere poi il laccio al collo stringersi, spuntare le prigioni politiche, le fucilazioni di massa, i campi di lavoro, le fosse comuni.
Dopo 33 anni nel mondo libero, mi rendo conto che non sono mai riuscita a lasciare alle spalle quel monito paterno che mi accompagnò durante l’infanzia e l’adolescenza: “attenta a ciò che dici!”.
Oggi non rischio più nulla, vivo in tutt’altra situazione, eppure se devo riflettere su qualcosa lo faccio solo tra me e me: e misuro le parole.
Ma se oggi penso ai giovani cubani nelle prigioni, non posso tenere a bada i ricordi, le angosce, la rabbia e non riesco a non dire che per me, tra comunismo e fascismo, la sostanze è la stessa, due estremi che si toccano fino ad assomigliarsi in tutto, con forme estreme e crudeli di controllo feroce nel nome di un’idea/ideologia.
Cercare di salvare il castrismo di Cuba, dando solo la colpa all’America, significa non sapere cosa vuol dire vivere o aver vissuto e subìto una dittatura.
Spero che Cuba ce la faccia a liberarsi da un sistema che non ha funzionato e mai funzionerebbe.
Nell’immagine: mosaico dell’era comunista sulla facciata del Museo storico nazionale di Tirana
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