Hong Kong agli Oscar, una generazione di attivisti al crocevia
Un documentario richiama l’attenzione su un tema che la Cina vorrebbe fosse dimenticato
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Un documentario richiama l’attenzione su un tema che la Cina vorrebbe fosse dimenticato
• – Loretta Dalpozzo
Come cambia il capitalismo! La facciata, perlomeno, perché la sostanza rimane
• – Libano Zanolari
L'ipotesi di una 'tassa di solidarietà' transitoria per affrontare la crisi economica da Covid-19
• – Aldo Sofia
Il capo della Casa Bianca mette fine a decenni di complicità con il negazionismo della Turchia; la Svizzera può ancora attendere?
• – Aldo Sofia
La testimonianza di Rupen Nacaroglu, luganese di origine armena, sulla tragedia e sulla coraggiosa resistenza del suo popolo
• – Redazione
foto © Marco D’Anna Il mare a volte si ferma, i marinai lo sanno; restano muti anche loro, aspettano senza farsi troppe domande, fumano e continuano a riempiere i bicchieri...
• – marcosteiner_marcodanna
Più di cento profughi annegati davanti alla Libia: i possibili ma mancati soccorsi, una vergogna senza fine
• – Redazione
Se il nome e il partito sono quelli giusti puoi violare impunemente le norme anti-Covid
• – Rocco Bianchi
Oltre 18'000 bambini e adolescenti immigrati scomparsi negli ultimi 3 anni In Europa, oltre 900 in Svizzera: lo rivela un'accurata indagine
• – Redazione
Le varie etnie si fronteggiano a muso duro sul campo di battaglia della società USA, “l’una contro l'altra armate”
• – Marco Züblin
Un documentario richiama l’attenzione su un tema che la Cina vorrebbe fosse dimenticato
La candidatura agli Oscar di Do not split, un documentario sulle proteste pro-democrazia di Hong Kong ha riportato sul palcoscenico internazionale la battaglia dell’ex colonia Britannica e dei suoi giovani, pronti a sacrificare la vita per libertà e diritti umani.
Secondo il regista norvegese Anders Hammer, le marce del 2019 documentate nel suo lavoro, rimangono uno degli eventi più significativi degli ultimi anni, perché la mano pesante di Pechino continua a plasmare Hong Kong, sebbene il tema non domini più il ciclo delle notizie.
Mesi di proteste, che hanno mobilitato fino a due milioni di persone, sono stati capaci di fermare il disegno di legge sull’estradizione di latitanti verso la Cina, ma non quella ancora più controversa sulla sicurezza nazionale, che punisce tutto ciò che Pechino considera sovversione, secessione, terrorismo o collusione con forze straniere.
I critici dicono che la legislazione limita i diritti e le libertà del territorio, a cui era stato promesso un alto grado di autonomia, dopo il ritorno sotto il dominio cinese nel 1997. I sostenitori credono che la norma abbia ristabilito l’ordine nel centro finanziario, sconvolto da mesi di scontri tra le due fazioni.
La verità è che la misura sta spingendo molti giovani all’auto-esilio. Anche chi non è finito in carcere per aver preso parte alle proteste contro Pechino, non vede futuro. Ma nemmeno andarsene è un’opzione facile. In base alla nuova norma, la polizia ha il diritto di confiscare i documenti di viaggio di chiunque sia sospettato di mettere in pericolo la sicurezza nazionale.
A creare nuovo allarme è inoltre una modifica della legge sull’immigrazione proposta dal governo di Hong Kong, che potrebbe diventare realtà il 1. Agosto. La disposizione concede ampi poteri ai funzionari per impedire a qualsiasi individuo di salire a bordo di un aereo o di una nave, senza ottenere un’ordinanza del tribunale.
Per mesi la Cina ha criticato il governo di Boris Johnson per il suo schema di visti, che offre piena cittadinanza britannica a coloro che volessero lasciare il territorio cinese. Pechino accusa Londra di dare rifugio ai criminali.
Alcuni analisti ricordano che Hong Kong è un potente simbolo del secolo di umiliazioni subìto dalla Cina tra il 1842 e il 1949 e per questo rimane una questione sensibile. Quando il gigante asiatico rifiutò l’offerta dell’Impero britannico di accettare oppio in cambio di tè locale, Londra bombardò il territorio cinese, che le autorità furono costrette a cedere. Solo 150 anni più tardi, Pechino ne ha ripreso il controllo.
Malgrado le pressioni e le condanne internazionali per l’erosione delle libertà fondamentali di Hong Kong, garantite dal modello “un paese due sistemi”, Pechino continua sulla sua strada. Dopo aver schiacciato i leader più giovani dell’opposizione, il governo di Xi Jinping ha punito anche i suoi amministratori storici. Il 16 aprile scorso, Martin Lee, 82 anni, considerato il padre della democrazia di Hong Kong, è stato condannato penalmente per la prima volta in decenni di attivismo pacifico. Con lui altri personaggi di spicco del movimento democratico, tra cui il magnate dell’editoria Jimmy Lai, sono stati riconosciuti colpevoli di aver organizzato e preso parte a proteste illegali.
Non è un caso che Pechino abbia deciso di censurare la diretta televisiva della kermesse hollywoodiana, irritata dal fatto che il film di Anders ritragga i manifestanti pro-democrazia come eroi. Secondo il Global Times, la testata controllata dal Partito Comunista, il cortometraggio è ricco di falsità.
Do not split non ha vinto l’Oscar, ma bloccarne l’accesso ha contribuito ad attirare l’attenzione su un tema che la Cina vorrebbe vedere sotterrato tra le tante notizie, che distraggono il mondo dalla lotta di una generazione di attivisti al crocevia.
Al centro della vicenda, al tramonto dell’era Eltsin, il Kremlingate, un affare giudiziario internazionale con protagonista una società di Paradiso
Sulle vicende di vent’anni di dibattito sulla formazione alla cittadinanza nelle scuole e di quanto si stia palesando fra i candidati e gli elettori