In almeno tre circostanze negli ultimi sei mesi aveva assicurato di non voler mollare: “C’è ancora molto da fare, intendo andare oltre il 2024, mi sento ancora carico di energie”. L’ultima volta lo ribadì un paio di settimane fa, in un’intervista alla SRF. Cos’è allora cambiato in appena una quindicina di giorni per indurre il socialista Alain Berset ad annunciare le sue dimissioni da Consigliere federale? Apparentemente nulla. Né basta la spiegazione data dall’interessato, e cioè una valutazione più accurata dei “tempi politici” (con riferimento alle elezioni nazionali del prossimo ottobre), che semmai conferma come la sua intenzione di gettare la spugna fosse stata in realtà già presa subito dopo aver assicurato la ferma volontà di continuare. Dunque, uscita di scena quantomeno singolare. Che non farà che alimentare ipotesi e speculazioni sui reali motivi della decisione presa dal più giovane esponente del governo federale, di cui è tuttavia anche il veterano dopo ben dodici anni passati alla guida del Dipartimento dell’interno.
Dobbiamo aspettarci l’apparizione di un qualche altro scottante “dossier” finora rimasto segreto? Oppure l’estrema riflessione su un bilancio di “fine carriera” non certo esaltante? L’amarezza per aver perso il primato di governante più popolare del Paese? O ancora, risalendo di alcuni mesi, l’opaca rielezione a presidente della Confederazione lo scorso dicembre dovuta anche a una serie di scandali e scandaletti (questi ultimi ampiamente strumentalizzati, e ne parleremo)? Insomma, cosa lo ha improvvisamente e imprevedibilmente privato di tutte quelle “energie” che ancora poco fa intendeva rimettere al servizio della nazione, dopo aver fra l’altro sottolineato che la sua lunga esperienza politica nella “stanza dei bottoni” poteva essere una preziosa risorsa per tutto il gruppo dirigente elvetico, “in una fase di situazioni economiche e internazionali” di particolare complessità e turbolenza?
Date le circostanze dell’annuncio, interrogativi legittimi: che naturalmente non possono escludere, nonostante le evidenti ambizioni e capacità del personaggio, una decisione semplicemente dettata da considerazioni personali e famigliari. Sta di fatto che in meno di un anno il Partito socialista deve affrontare l’abbandono di un secondo suo consigliere federale, dopo quello (era il 1. novembre scorso) di Simonetta Sommaruga. Due “pezzi da novanta”. E sostituire il nuovo partente non sarà meno difficile, e nel partito eventualmente meno lacerante.
Anche perché la personalità di Alain Berset ha lasciato impronte nette, forti, nella vita politica svizzera dell’ultimo decennio. Così come pesanti e impegnativi sono problemi e decisioni che deve affrontare il suo dicastero. Tanto che, in occasione dell’ultima sua conferma in Consiglio federale, qualche voce all’interno del suo stesso partito aveva auspicato che cambiasse dipartimento, trasferendosi per esempio agli Esteri. Tre sono stati i suoi principali “campi di battaglia”. La riforma pensionistica, i costi della salute, l’emergenza Covid. Su quest’ultima, un bilancio positivo, anche se, com’egli ha confidato, s’è trattato di un periodo particolarmente emotivo e stressante sul piano personale: “ho vissuto momenti di una brutalità senza precedenti”, ha confidato in una intervista a “Swissinfo”. Bersaglio di accuse infuocate, e anche minacce di morte, dalla parte più radicale e scatenata del negazionismo anti-vax e anti-lockdown; accresciuta vigilanza e protezione della polizia attorno alla sua persona; inoltre, va pur detto benché lui lo abbia smentito, aspri confronti all’interno dell’esecutivo (a chi si riferiva altrimenti quel “il governo federale si crede Dio” lanciato in pubblico, con sprezzo della collegialità, dal suo collega UDC Ueli Maurer?); e pure i rapporti non sempre idilliaci fra Berna e alcuni cantoni, in cui sembravano riflettersi come mai prima i problemi della coesione nazionale, del cemento confederale. Un confronto che il friburghese ha comunque vinto: la Svizzera non ha fatto né meglio né peggio di altre nazioni occidentali alle prese con una tragedia sanitaria inedita, ma è stata l’unico Paese in cui sulla strategia anti pandemia si è andati a votare tre volte (l’ultima lo scorso week end), e in cui il governo, diciamo pure Alain Berset, ha ottenuto una larga fiducia popolare.
Molto più discusso, controverso, discutibile, se non fallimentare il bilancio su riforme delle pensioni e costi della sanità. Proprio lui, il consigliere federale socialista alle prese con due capitoli fondamentali dell’equità sociale. Non tanto per la netta bocciatura della riforma previdenziale (Primo e Secondo pilastro) del 2007. Ma soprattutto sull’innalzamento dell’età pensionabile per le donne, ancora discriminate nel confronto salariale, che contro il parere del suo partito il consigliere federale del PS difese con convinzione in nome della “futura sostenibilità finanziaria” del sistema pensionistico; e poi della salatissima e impietosamente accresciuta fattura delle Casse malati (i cui dirigenti possono guadagnare anche più di un Consigliere federale), fattura pesantissima e insostenibile per molta parte delle famiglie svizzere. Sistema bloccato (tranne la breve eccezione di due anni fa), spese aumentate (qualunque sia stato il colore politico del capo Dipartimento), nessuna incisiva riforma per calmierare i costi, e personale sanitario stressato (il più alto indice di abbandono fra le professioni nazionali) e costretto a una iniziativa popolare vinta, nonostante il parere contrario di Berna e i cui benefici sugli operatori ancora non si vedono. Così toccherà di nuovo a lui, Berset, annunciare gli aumenti, di media superiori al sei per cento, anche per il prossimo anno.
Non è stato l’unico dossier su cui Berset si è trovato in conflitto con i suoi compagni. Fra l’altro anche su quello della guerra d’invasione e aggressione (russa) in Ucraina, e relativa politica svizzera. Quando affermò, precisando di essere contrario alla rivendita di armi elvetiche a Kiev, “mi sembra di vivere un’atmosfera simile a quella che precedette la prima guerra mondiale, anche oggi sento questa frenesia bellicosa in certi ambienti [svizzeri, ndr] e sono molto preoccupato”. La replica del PS fu affidata alla NZZ dal co-presidente Wermuth: “analisi e conclusioni non condivisibili”. Lui fece marcia indietro: “Ammetto di aver usato parole inadeguate”.
E poi, certo e come si è detto, scandali e scandaletti. Fra questi ultimi le accuse di una donna che ricattò Berset (chiedendo denaro) minacciando di rivelare messaggi compromettenti che i due si sarebbero scambiati (condannata penalmente la signora, mentre un’inchiesta scagionò il ministro dal sospetto di essere stato favorito dal Ministero pubblico federale); e quel viaggio su un piccolo aereo da turismo pilotato dallo stesso Berset sui cieli della Francia, intercettato da due caccia transalpini, e l’intimazione di rientrare non eseguita: il problema, decretò la successiva verifica, è che i francesi avevano usato per tre volte un codice errato.
Ma lo scandalo vero fu un altro, il “Corona-Leaks”: uno dei suoi principali collaboratori, Peter Lauener, capo informazione del Dipartimento, che consegnò segretamente anticipazioni al “Blick” sulla strategia anti-pandemica del governo, caso esemplare di sporca, antietica, grave e intollerabile “collaborazione” sottobanco fra politica e informazione. Pagò solo il collaboratore. Il ministro se la cavò affermando di non saperne nulla. Piuttosto inverosimile. Anche lui, Berset, sapeva dei frequenti, strepitosi “scoop” del gruppo Ringier, basati su documenti sicuramente del suo ufficio e passati al quotidiano popolare più diffuso del Paese. E non si fece qualche domanda?
Nell’immagine: Alain Berset durante la conferenza stampa a Palazzo federale