Nuvole nere sul pallone italiano, nerissime sul suo giornalismo
La morte prematura di noti calciatori ne induce altri a porsi questioni che i media liquidano in fretta e furia nel nome dello “show must go on”
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La morte prematura di noti calciatori ne induce altri a porsi questioni che i media liquidano in fretta e furia nel nome dello “show must go on”
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La morte prematura di noti calciatori ne induce altri a porsi questioni che i media liquidano in fretta e furia nel nome dello “show must go on”
La cronaca ci dice che, negli ultmi mesi, il calcio italiano ha dovuto affrontare ed elaborare due gravi lutti. Sinisa Mihajlović e Gianluca Vialli hanno infatti salutato la compagnia dopo annunciata grave malattia. «Gli eroi sono tutti giovani e belli» e loro due «ci nacquero», ci ricordano Guccini e Totò. Il clamore per la loro dipartita è stato davvero enorme, oltrepassante l’impervia barriera chiamata «tifo» e, ovviamente, i confini nazionali. Sono stati, i due, calciatori di grandissimo livello eppoi allenatori di prestigiosi club (per qualche anno hanno pure condiviso esperienze in comune, fianco a fianco).
Esaurite le sacrosante laiche commemorazioni, alcune davvero toccanti, il mondo del pallone ha ripreso il suo tran tran. L’incredulità per queste due morti precoci (53 anni il serbo, 59 l’azzurro) è stata lenita e risolta con il guardare avanti, il riprendere le vecchie, non sempre tutte buone abitudini. La sfera di cuoio è tornata a rotolare procurando emozioni e rinnovando passioni: in fondo, come ha ben sottolineato Libano Zanolari su questo portale, «la dittatura del pallone ha una potenza enorme in sè»: ci indignamo per tutte le orrende nefandezze perpetrate per organizzare un mondiale in mezzo alle dune, giustificato solo dall’arrogante potere dei soldi, ma poi quando la rete si gonfia sono emozioni irresistibili per i tifosi. E pace per i morti sui cantieri di queste cattedrali, pur denunciate ai quattro venti da documentari, rapporti, testimonianze, libri, ecc. «The show must Go On»: ci si torna ad insultare sugli spalti e con la ferocia del gruppo, ci si esprime con cori razzisti (al punto da ridurre al pianto due giovani calciatori del Lecce: Lameck Banda e Samuel Umtiti), ci si dà appuntamento sull’autostrada per regolare i conti come all’ «Ok Corral». E sono legnate vere.
Nuovi idoli prenderanno il posto di Sinisa e Gianluca perché, come diceva qualcuno, «domani è un altro giorno» e… «morto un papa se ne fa un altro». Via libera alle banalità, pure loro necessarie per superare certi momenti. Anche i giornali hanno esorcizzato il tutto rimettendo la faccenda sull’antagonismo fra le diverse bandiere, sulla competitività, o se si preferisce sul tifo. Con un obbligo tassativo: assolutamente proibito usare una parola, doping.
E certi brutti pensieri, o semplici risposte sul «perché …» (così giovani belli) rimangono latenti. Quasi fossero un fastidio da nascondere, un segreto da custodire. Il verbo dei media rimane sintonizzato sul «tutto va bene», sul via… cancelliamo anche i brutti ricordi (Vialli da splendido atleta in un attimo si ritrova un «X-Men»), lasciamo stare altre tragedie (la Sla di Borgonovo e Signorini, di Anastasi, la morte misteriosa di Fortunato e di Ventrone… sì il famoso preparatore fisico che sembrava un istruttore dei marines).
Il pallone «deve» continuare a rotolare. Un atteggiamento ipocrita e per nulla confacente ad un giornalismo che si vuole «sul pezzo», dunque animato da ricerche e inchieste. Ma lo spartito è quello ed il coro consolidato. «Facciamo finta di essere sani», dai, non costa nulla. Eppoi buttare sabbia nell’ingranaggio porta male, sembra quasi uno sputo nel piatto in cui si mangia. Questo il trend, anzi, il comandamento mai dichiarato ma da tutti i media praticato. Fino a quando, ed è cronaca di pochi giorni fa … un qualche ex-calciatore, mosso da semplice ma profonda paura, una qualche domanda se la fa, e la rende pubblica. Come Dino Baggio che ricorda certe esperienze non proprio esaltanti («bisognerebbe investigare sulle sostanze prese in quei periodi» sono le sue testuali parole, e aggiunge «certi integratori assunti hanno fatto bene o no? E queste sostanze siamo riusciti ad espellerle oppure ci sono rimaste dentro? Io ho paura, sta succedendo a troppi calciatori»). A Dino Baggio ha fatto subito eco un altro giocatore dell’epoca, il rumeno Florin Raducioiu («facevo flebo con liquido rosa», ora voglio saperne di più) eppoi anche Massimo Brambati («Micoren come caramelle, prendevo anche l’amilina, una sostanza non dopante ma dall’effetto evidente: non sentivo la fatica, avevo i battiti accelerati e una maggiore prontezza di riflessi»). Il figlio di Beatrice, altro morto eccellente, e Antonio Di Gennaro, che del suo debutto, diciannovenne, ricorda che ( «la partita si interruppe ed il massaggiatore venne a darmelo in campo»).
Dichiarazioni spontanee, mitigate da giustificazioni che si trasformano in aggravanti: ignoranza accettata («non sapevamo cosa prendevamo»), obbedienza incomprensibile («C’erano allenatori che se non facevi la flebo, si arrabbiavano»). Queste voci sono subito state censurate, Mancini su Baggio ed il medico di allora del Brescia a Raducioiu, ma anche questa non è una reazione sana. Quasi un’ammissione di colpa: in fondo dagli ex-calciatori è arrivata solo una richiesta di chiarimenti, una risposta a timori (personali, intimi e comunque assolutamente legittimi) oggi in grado di togliere il sonno.
No, qui non si vogliono emettere sentenze che non ci competono. Ci basta che si evitino banalità e che serenamente si aprano inchieste volte alla NON ripetizione di certe azioni nocive. Perché «vincere non è l’unica cosa che conta», perché lo sport dovrebbe essere sinonimo di salute, perché il divertimento o la passione non possono essere pagati fino alla morte. «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi»… diceva Bertolt Brecht.
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