«È drammatica ma non seria», la situazione attuale del calcio italiano. Non si pensi però ad un futile gioco di citazioni (l’inarrivabile Ennio Flaiano, in questo caso): è la triste realtà. Appena scoppiato il caso «doping», con Dino Baggio e Tardelli ad esprimere le loro paure sulle sostanze assunte tanti anni fa, ecco il pronto intervento dei pompieri: il tecnico della Nazionale Roberto Mancini in primis ed i media nazionali poi. «
Non volevamo, non ci siamo espressi bene» hanno ripetuto i due alla «Domenica sportiva»… et voilà, l’omertà è servita. Non è successo niente, i malati gravi ed i morti di SLA ricacciati nuovamente nell’ombra. L’allarme rosso può prendere polvere fino al prossimo morto. E non fa niente se gli ultimi studi sulla SLA legata al calcio sono di una ventina di anni fa. Preciso è però il computo dei morti: in totale in Italia quelli legati al mondo del calcio sono stati 34 (fonte: Istituto Mario Negri).
In questi giorni, tutte le attenzioni si sono così rapidamente rivolte alla decisione della Corte di appello della Federazione per il “caso plusvalenze” della Juventus: tutt’altro genere di doping, ma sempre doping, in fin dei conti; in questo caso, di tipo finanziario, dove a morire rischia di andare la più blasonata società calcistica, quella, per intenderci, della famiglia Agnelli e dei milioni di tifosi in tutto il mondo.
Ieri la sentenza è stata confermata e sono state pubblicate le motivazioni che hanno indotto la Corte federale d’Appello a un drastico taglio di punti in classifica. Erano stati richiesti 9 punti di penalizzazione ed i giudici hanno aumentato la pena, fissandola a 15. Nel frattempo i media hanno giocato (sporco) sul dato emozionale, sul tifo, quasi fossero alla ricerca di click o facili consensi. Mischiando apparenti razionalità («perché 15 punti e non 20 ?, perché non 8? eppoi… la pratica delle plusvalenza non è praticabile in solitaria: che cos`è onanismo economico ?») e vittimismo storico («già una volta abbiamo pagato per tutti… è uno scandalo, per di più applicato a campionato in corso… »). Con un pizzico di attualità politica: «è ora di finirla con le intercettazioni, lo ha detto anche il nuovo ministro della giustizia Carlo Nordio… ma presto si porrà fine a questa inciviltà» (n.d.r: «sem a post: Matteo Messina Denaro commosso, ringrazia»). Gli è che le motivazioni pubblicate ieri sembrano chiare: solo la dirigenza bianconera ha agito in consapevolezza e operato sistematicamente. Due macigni.
Al di là di tutto questo restano però incontestabili altre condanne sulla Juventus, magari espresse inconsapevolmente. Come interpretare ad esempio la prima dichiarazione del nuovo presidente Gianluca Ferrero, chiamato a sostituire Andrea Agnelli ?. Citiamo: «Agiremo senza arroganza». Se non è ammissione di colpa, questa…
Chi scrive non sa se nella sentenza si sia fatto ricorso anche alla recidiva ma il dato di fatto è che a Torino hanno imparato poco da Calciopoli. Era il 2006 ed in questi 17 anni le cose sono andate male, malissimo per il calcio italiano tutto. Quattro fallimenti mondiali (due in presenza 2010 e 2014 e due in assenza 2018, 2022), la fuga dei ricchi presidenti indigeni (Berlusconi e Moratti), sostituiti da oriundi a stelle e strisce, original Yankees e cinesi non tutti credibili, con il rosso dei conti che cresce, cresce, cresce, a dismisura. E si inventano giochetti illegali (le plusvalenze) ma anche legali (come i contratti con le tv a pagamento, poi rivelatisi un flop, o quasi). Viene in mente il (bel) film di Kassovitz, «L’odio» del 1995: «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. A mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio sbuffa. Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta ma l’atterraggio».
Intanto il calcio giocato manda a dire che quello che era il «campionato più bello del mondo è ora… il più finito». Ridotto ad una puntata, neanche troppo bella, del tenente Colombo: il colpevole lo si conosce con largo anticipo ed i colpi di scena sono riservati alle comparse. E si continua a «far finta di essere sani, tout va bien madame la marquise».
Ma se in Italia si piange – si dovrebbe piangere! – in Ticino c’è poco spazio per i sorrisi. Si sa, quando in Italia fa freddo il raffreddore arriva anche qui. A Chiasso si è celebrato l’ultimo (si spera) funerale dei cosiddetti grandi club ticinesi (vedi Stefano Marelli nel suo ottimo editoriale di sabato scorso su «laRegione»). Anche qui la sentenza non ha meravigliato nessuno: da troppo tempo la facile domanda «che senso ha un club così?» non aveva risposte. A Bellinzona, con la sua girandola di allenatori, la stessa domanda si insinua nell’animo di crescenti appassionati. E a Lugano? Il Lugano al momento tiene. Ma il pettine non è distante dai nodi. Un dato preoccupa: nel suo attuale organico vi è solo un calciatore formato e cresciuto nel club: Mattia Bottani. Al di là dei successi possibili, che comunque auguriamo alla squadra, questo dato statistico lascia inquieti. Le spalle del “Crus” (l’allenatore Croci Torti) sono ancora forti e potenti e la proprietà non sembra priva di serietà, ma… Se tutto si fonda, un’altra volta (come a Chiasso, a Bellinzona, per non parlare del “disperso” Locarno) sul commercio di giovani calciatori, sul viavai irrefrenabile di ragazzi ridotti a carne da macello, allora anche il senso di appartenenza dei tifosi vacilla, e a occhio e croce il destino potrebbe profilarsi inesorabile. E anche noi, nel nostro piccolo, come a Torino, sul futuro rischiamo di mettere una crus.