La lezione afghana

La lezione afghana

I valori democratici non si possono far accettare con la forza. Ma allora come?


Marco Züblin
Marco Züblin
La lezione afghana

“(…) vi è ogni volta, nella narrazione ufficiale gestita dai manipolatori del discorso, lo stato canaglia, ossia quello che non si piega alla globalizzazione cioè all’americanizzazione del mondo, c’è il nuovo Hitler identificato di volta in volta con Saddam, con Gheddafi o con Putin, vi è il popolo unificato che vorrebbe liberarsi dal dittatore ma non vi riesce, dulcis in fondo vi è l’intervento dell’imperialismo etico con diritti umani utilizzati a mo’ di foglia di fico che interviene a liberare il paese in questione, cioè ne favorisce il transito sotto il dominio imperialistico della monarchia del dollaro e la civiltà dell’hamburger. Questo è accaduto secondo il copione ormai noto a tutti, copione che prova a far valere come democrazia, pace e diritti ciò che in realtà andrebbe chiamato e combattuto con il nome d’imperialismo della globalizzazione.

C’è qualcosa su cui meditare in questa esternazione di Diego Fusaro, saccheggiatore marxiano ma pifferaio della destra sovranista, con riferimento a quanto avviene ora in Afghanistan. In particolare con riferimento alla volontà di imporre, con i meccanismi della globalizzazione (i media, internet) e con la guerra dichiarata con pretesti etici ma con motivazioni economiche, modi di vita uniformi a realtà estremamente diversificate dal punto di vista storico, sociologico, economico, culturale. La narrazione giornalistica mainstream ci presenta il dramma nato dalla partenza dei militari occidentali dal Paese come se tutti i valori dell’occidente capitalisticamente globalizzato fossero gli unici possibili, e tutti imprescindibili per l’esistenza dell’uomo. Coloro che, tragicamente, si appendono agli aerei in fase di decollo sono, ritengo, coloro che più di altri hanno vissuto questa illusione e che forse hanno in qualche modo beneficiato di vent’anni di “benessere” indotto dalla presenza militare, addirittura persone che temono di subire la sorte che, storicamente e puntualmente, subiscono i collaborazionisti; essi sono esempio e compendio di quanto fragili ed estranei fossero questi stili di vita veicolati in tuta mimetica.

How many more generations America’s daughters and sons would you have me send to fight in Afghanistan’s civil war when Afghan troops will not?“, ci dice ora Biden, chiarendo implicitamente l’ovvio (e che lo era anche nel 2001), e cioè che l’intervento ha tentato di introdurre un corpo estraneo in una società che ha radicati valori diversi, che possono non piacere (magari suscitare orrore) ma di cui occorre prendere atto. I talebani, travestitisi da buoni e cortesi vincitori, si mostrano concilianti e promettono un futuro senza regolamenti di conti; non vi è da crederci molto, sia per lo sguardo da mangiafuoco con il quale lo dicono, sia a causa dell’impossibilità di controllare un contesto socio-militare frammentato, ma soprattutto per il peso incombente del dettato religioso (abbiamo uno Stato che ambisce alla purezza ebraica, avremo uno Stato afghano islamico). Andranno così perdute conquiste importanti, che con la globalizzazione c’entrano poco, come i diritti delle donne, la libertà di espressione, il rispetto di taluni di valori democratici basilari. Non è escluso che sarà proprio il fallito tentativo occidentale di imporle con la forza delle armi – in uno con i valori culturali, economici e sociali del mondo globalizzato – a delegittimare tali conquiste, facendole apparire come epifenomeno di un tentativo imperialistico, e ad accelerarne la cancellazione. Ad un certo punto occorrerà interrogarsi sul modo migliore, rispettoso e incruento, per difendere e per promuovere questi principi banalmente umani, gli unici che meritano di essere oggetto di globalizzazione; un modo che però non potrà essere quello, fallimentare, made in USA. 

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