Il dolce Natale e l’insostenibile prezzo del cacao
Lavoro minorile, agricoltori mal pagati e ingiusta distribuzione globale dei profitti: questi gli ingredienti chiave dell’industria del cioccolato
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Lavoro minorile, agricoltori mal pagati e ingiusta distribuzione globale dei profitti: questi gli ingredienti chiave dell’industria del cioccolato
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Lavoro minorile, agricoltori mal pagati e ingiusta distribuzione globale dei profitti: questi gli ingredienti chiave dell’industria del cioccolato
Ed eccoci in pieno periodo natalizio, periodo dell’anno durante il quale le nostre case si riempiono di calendari dell’avvento e cioccolatini di ogni forma e dimensione. Si stima che in Europa si mangi più cioccolato che altrove. I consumi si aggirano tra il 45% e il 55% della fornitura mondiale.
Ma qual è il costo umano (e non solo) di questo consumo di massa?
Non è una novità che l’industria del cacao si regga su una diseguaglianza vertiginosa. Da un lato, i miliardi di dollari incassati annualmente dalle multinazionali. Dall’altro, la povertà quasi assoluta in cui vive la maggior parte degli agricoltori.
Negli ultimi anni, numerosi sono stati studi, indagini e reportage che denunciano le condizioni dei lavoratori nelle piantagioni di cacao, ma poco è cambiato. I governi africani accusano le aziende produttrici di fare “tutto il possibile” per evitare che il costo del cacao aumenti. Anzi, tentano pure di ridurlo. E oltre la metà dei coltivatori di cacao continua a vivere al di sotto della soglia di povertà globale.
È ciò che emerge da un report pubblicato da Ethical Consumer. Delle 84 aziende produttrici di cioccolato analizzate su scala mondiale, soltanto 17 utilizzano cioccolato proveniente da fornitori che garantiscono agli agricoltori una retribuzione sufficiente per vivere.
La maggior parte del cacao viene coltivato da piccoli agricoltori nell’Africa occidentale. Ghana e Costa d’Avorio sono i paesi di punta, i due principali produttori di cacao dell’Africa cui si deve circa il 60% della produzione globale. Tuttavia, non beneficiano praticamente di alcun profitto dal settore. Fino a 9 coltivatori di cacao su 10 non guadagnano un reddito dignitoso. 500 dollari sono tutto ciò che potrebbero ricevere durante l’intero anno. Insufficiente anche per coprire i costi di produzione.
Il reddito dei coltivatori di cacao è così basso che affidarsi al lavoro minorile diventa necessario per sopravvivere. In Costa d’Avorio e Ghana, emerge che quasi la metà delle compagnie utilizzano manodopera infantile. Nello specifico, 4 aziende su 10 in Costa d’Avorio e 6 su 10 in Ghana. Oltre ai rischi immediati cui questi bambini vengono esposti – quali tagliarsi con il machete -, ve ne sono di ulteriori, diagnosticabili e misurabili più a lungo termine. Il lavoro nelle piantagioni di cacao, per esempio, è particolarmente dannoso in età infantile perché l’esposizione ai pesticidi può comprometterne lo sviluppo fisico e cognitivo. Ma gli effetti negativi emergono solo a distanza di anni.
Sfruttamento minorile, ma anche ambientale. Gli alberi di cacao hanno una vita economica che varia dai 30 ai 40 anni. Tuttavia, i rendimenti iniziano a diminuire dopo circa 15 anni. Gli agricoltori ricorrono quindi alla deforestazione per mantenere la produzione e la resa a breve termine. Il Ghana e la Costa d’Avorio hanno perso rispettivamente il 94% e l’80% delle loro foreste negli ultimi 60 anni, un terzo delle quali per far posto al cacao. Si stima che circa il 40% del cacao ivoriano provenga da aree forestali protette, il che lo rende tecnicamente illegale.
L’Africa ottiene, dunque, profitti irrisori dall’industria del cioccolato, e, ovviamente, ne risente terribilmente sia a livello sociale che ambientale. Si tratta, in definitiva, e una volta ancora, di un modello di produzione che si regge sulle disuguaglianze, estremamente difficile da modificare proprio perché è su quelle disuguaglianze che è stato costruito.
Le fave di cacao furono introdotte nell’Africa occidentale durante l’era coloniale. Il modello generale del sistema economico coloniale richiedeva che le colonie coltivassero materie prime e poi le esportassero in Europa per la produzione o la lavorazione. Una volta stabilito questo modello, le aziende africane non poterono assolutamente competere con le multinazionali della lavorazione e della produzione del cioccolato cresciute nei paesi sviluppati.
Oggi, il 64% dei semi di cacao del mondo viene coltivato in Africa, il 15% in Sud America e il 13% in Asia. Tuttavia, la maggior parte dei semi di cacao continua a essere esportata verso aziende internazionali per le fasi produttive più redditizie. L’Europa importa una cifra pari al 50% del cacao mondiale. Una cifra enorme se si considera che, se i semi fossero distribuiti equamente in tutto il mondo, gliene spetterebbe solo il 9%.
Dal report emerge come i programmi di sostenibilità delle multinazionali che dominano questo settore redditizio siano generalmente inadeguati. Le industrie più incriminate dal report sono Mars, Nestlé e Mondelēz, Ferrero. Tra i fattori che hanno inciso nel giudizio negativo sul loro operato ci sono i diritti dei lavoratori, ma anche la condotta fiscale e l’impatto ambientale, in particolare la deforestazione e l’uso della plastica.
Tra i brand raccomandati, troviamo, invece, Tony’s Chocolonely, Divine e Chocolat Madagascar che risultano tra i marchi che pagano tariffe in linea o superiori con il Fairtrade International e utilizzano cioccolato prodotto nello stesso paese in cui viene prodotto il cacao.
Nell’immagine: minori al lavoro in una piantagione di cacao
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