Ci sono temi, situazioni, problematiche, che anche in contesti geografici, sociali e culturali molto differenti possono improvvisamente indurre a rivenire analogie anche inquietanti, legami misteriosi che mettono in relazione esperienze molto diverse, eppure accomunate da sofferenza e impotenza. Così, le vite còlte in “presa diretta” nei quartieri più poveri e depressi di una capitale africana, possono improvvisamente imporci nuove riflessioni su una questione etica e sociale di grande rilevanza come quella del diritto all’aborto, che ben più vicino, a due passi da casa, pare riproporsi in termini analogamente drammatici.
Impossibilitate a interrompere la loro gravidanza legalmente, ricorrono a intrugli nocivi da loro preparati. Accade negli slum di Nairobi, dove è emerso che diverse ragazze sarebbero costrette a ricorrere a metodi barbarici perché private di vie legali per abortire. «Non ci resta che trovare una soluzione in autonomia. Solitamente, noi giovani ragazze ricorriamo ai metodi più pericolosi. Il detersivo per lavare è parte di questi: economico e facile da reperire», racconta Fatima, una giovane di soli 14 anni.
Testimonianze simili sono continue. Emerge come la giovane età giochi un ruolo chiave nell’indurre molte ragazze ad appellarsi a metodi “fai da te”. Faith: «Non abbiamo alcuna disponibilità finanziaria. In aggiunta, dobbiamo agire all’oscuro dei familiari e della comunità in senso lato». Chi, infatti, può permettersi un ricovero, ricorre alle cliniche abusive, ma le procedure al loro interno comportano conseguenze devastanti se non mortali per le madri.
L’aborto in Kenya
L’interruzione volontaria di gravidanza, in Kenya, è illegale. È possibile ricorrervi solo quando la salute della donna è in pericolo. Ne risulta che il Kenya registra alcuni tra i numeri più alti di aborti illegali in Africa e che questi sono tra le principali cause di mortalità materna nel Paese. Degli stimati 6.000 decessi annui, il 17% deriva da complicazioni in seguito ad aborti illegali. Negli ultimi anni, gruppi di femministe e difensori dei diritti umani si sono attivati con l’obiettivo di prevenire i decessi causati dalle pratiche di aborto non sicure. Nel 2019, era stata presentata anche una proposta di legge sull’assistenza sanitaria e la salute riproduttiva sponsorizzata dalla senatrice di Nakuru, Susan Kihika, che cercava di legalizzare l’aborto.
Il diritto alla salute riproduttiva non riguarda solo i diritti umani e i doveri costituzionali, ma anche le politiche di salute pubblica. Il diritto alla salute è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione in Kenya. L’art. 43 sancisce infatti che ogni persona ha il diritto allo standard più alto raggiungibile in materia di salute, il che include il diritto ai servizi concernenti la salute riproduttiva. Tuttavia, nonostante gli sforzi di numerosi attivisti, la situazione rimane immutata. A contribuire a questa sorta di stallo, le pressioni esercitate dai gruppi religiosi e politici di estrema destra, tuttora forti nel Paese. I gruppi pro-vita hanno una voce autorevole in Kenya e sostengono che la costituzione keniana è già troppo permissiva, consentendo l’aborto nei casi in cui, nell’opinione di uno specialista, sia necessario un trattamento di emergenza, se la vita o la salute della madre siano in pericolo. Tale pensiero è supportato anche da CitizenGo, associazione internazionale legata all’estrema destra spagnola e alla guida della posizione anti-aborto in Kenya, che ha l’obiettivo di frenare qualsiasi legislazione a tutela della salute riproduttiva delle donne.
Il diritto all’aborto è sicuramente una questione quanto mai attuale in Africa, ma non solo. In un momento storico in cui in molte parti del mondo si è visto un considerevole ritorno al potere di governi conservatori, il tema dell’aborto riempie le pagine di giornali e le prese di posizione della politica anche sull’altra sponda del Mediterraneo.
La situazione in Italia
«Addirittura, a Torino, in un ospedale, si è istituita la stanza dell’ascolto per fermare l’aborto. Una barbarie. Eppure, tutto passa senza indignazione», scrive Emma Bonino.
In Italia, si torna a parlare di aborto con la firma, avvenuta il 31 luglio, all’ospedale Sant’Anna di Torino, di una convenzione per istituire, appunto, una “stanza dedicata all’ascolto” delle donne che intendono interrompere la propria gravidanza. Tale stanza prevede che un gruppo di volontari e volontarie del Movimento per la vita riceva su appuntamento le donne in una stanza dedicata dell’ospedale. La convenzione – firmata dall’Azienda Città della Salute e della Scienza di Torino, uno dei poli sanitari più grandi in Italia, e dalla federazione regionale del Movimento per la Vita, associazione antiabortista di ispirazione cattolica – è stata fortemente sostenuta dall’assessore regionale alle Politiche sociali Maurizio Marrone di Fratelli d’Italia, il partito di destra della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Leader di Fratelli d’Italia che, con la sua elezione avvenuta lo scorso ottobre, è già tornata a parlare di aborto e della legge che in Italia lo rende possibile.
Per limitare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza non c’è bisogno di abolire né modificare la 194. La legge del 22 maggio 1978 che, in Italia, autorizza l’aborto fino alle dodici settimane di gravidanza, presenta infatti molti limiti. Il primo si lega molto bene a quello che sta avvenendo in Piemonte. La possibilità che ospedali, consultori e strutture sociosanitarie si attivino non solo per garantire l’accesso all’aborto, ma anche per esaminare “possibili soluzioni” e aiutare la persona “a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”, prevista dall’articolo 5, permette a gruppi antiabortisti di inserirsi facilmente all’interno degli ospedali e di opporsi ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne.
Il secondo, che per ricorrenza resta il principale in Italia, fa riferimento a un altro diritto fondamentale: quello dell’obiezione di coscienza. Sancita dall’articolo 9 di suddetta legge, l’obiezione di coscienza è andata sempre crescendo, ed è ancora oggi utilizzata, in molti casi strumentalmente, per ostacolare l’applicazione della legge. Secondo i dati del ministero della Salute, nel 2019 il 67% dei ginecologi italiani si è rifiutato di praticare l’aborto, cifra che sale addirittura all’80% in cinque regioni. Il caso Marche, governato da Fratelli d’Italia, ne è l’esempio più palese: solo in questa regione la percentuale media di obiezione per il 2021 è pari al 69%; su 17 strutture sanitarie, 12 sono punti per l’interruzione della gravidanza: in una non si pratica l’aborto (Fermo) e in altre quattro non ci sono ginecologi che non siano obiettori. Quattro strutture su dodici hanno più dell’80% di ginecologi obiettori. In Italia, non si parla di illegalità. È trascorso ormai quasi mezzo secolo dall’introduzione della legge. 45 anni per la precisione. Ma possiamo davvero parlare di diritto conquistato? Una questione che resta aperta, dunque, drammaticamente. In Italia come in Kenya. E non solo.