Bruno Schulz – Il punto fermo

Bruno Schulz – Il punto fermo

Parole, suoni, immagini da una terra tormentata


Pietro Montorfani
Pietro Montorfani
Bruno Schulz – Il punto fermo

Nella speciale classifica dei confini più longevi e immobili d’Europa, subito dietro quello che divide dal XV secolo i regni di Spagna e Portogallo, sta il triangolo rovesciato che il Canton Ticino disegna tra Lombardia e Piemonte, incuneandosi verso sud. Si definì, dopo alcuni assestamenti, tra il 1513 e il 1521 e da allora non si è più spostato. Chi abita in questa parte del mondo non è quindi particolarmente portato a intendere i confini come fattori dinamici, tutt’al più come fenomeni di maggiore o minore osmosi, a seconda delle epoche e dei rivolgimenti politici.

All’estremo opposto della classifica sta invece quella linea che, come poche, ha oscillato per secoli tra le attuali Ucraina, Polonia e Bielorussia, senza trovare mai requie: un taglio netto verticale che nella sua incostanza ha finito per stravolgere le vite di migliaia di persone, contribuendo alla mescolanza di lingue e culture diverse. A pochi chilometri e pochi anni di distanza sono nati infatti alcuni dei maggiori intellettuali polacchi e ucraini dell’Otto-Novecento, cittadini dell’Unione sovietica o dell’Impero austro-ungarico, cattolici, ortodossi o ebrei. Un patrimonio culturale che merita di essere riscoperto.


Bruno Schulz, Autoritratto, incisione, ca. 1920

Cittadino austroungarico di cultura ebraica e di lingua polacca, Bruno Schulz (1892-1942) ha vissuto per tutta la sua breve vita a Drohobyč, oggi Ucraina, pochi chilometri a sud di Leopoli. La sua morte insensata per mano di un SS, che gli sparò alle spalle per vendicarsi di un collega che aveva ucciso il “suo” ebreo, è la quintessenza delle tragedie del XX secolo, cui si unisce l’incapacità di Schulz di concepirsi in altro luogo che non fosse la sua città d’origine.

A seguito dello sciagurato patto Molotov-Ribbentrop, con il quale nel 1939 Hitler e Stalin si erano divisi la Polonia a tavolino, la piccola Drohobyč si era trovata in mezzo agli eventi e quasi tutti gli amici di Schulz avevano levato le tende. Non lui, rimasto fermo come una pallina da tennis al centro della bufera, mentre la rete si spostava freneticamente avanti e indietro.

Forse anche per questa ragione l’orizzonte di riferimento di questo scrittore e disegnatore autodidatta, umile e schivo fino al parossismo, fu un mondo di fantasia, concepito attorno alla bottega del padre Jakub e ai ricordi della propria infanzia, trasfigurati dalla finzione letteraria. Autore di racconti al quale non fu mai concesso, per la brevità della vita, di portare a termine il suo unico vero romanzo (intitolato Il Messia), nei suoi testi Schulz celebra indirettamente un’epoca in repentino disfacimento: un Kafka nato un po’ più a est, lo si potrebbe definire, o un Joseph Roth cresciuto lontano dall’amata Vienna.

«Uscii nella notte invernale colorata dall’illuminazione del cielo. Era una di quelle notti chiare in cui il firmamento stellato è così vasto e ramificato da sembrare frantumato, spezzato e suddiviso in un labirinto di cieli distinti, sufficienti a provvedere un intero mese di notti invernali e a ricoprire con le loro campane argentee e variopinte tutti i fenomeni, avvenimenti, vicende e carnevali notturni. È una leggerezza imperdonabile mandare un ragazzo in una notte simile con un incarico importante e urgente, perché nella penombra le strade si moltiplicano, si confondono e si scambiano l’una con l’altra. Nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci. Stregata, aberrante, l’immaginazione crea una pianta illusoria della città, apparentemente ben nota e risaputa, in cui quelle strade hanno un loro posto e un nome, mentre la notte nella sua inesauribile fecondità non trova meglio da fare che fornire sempre nuove e immaginarie configurazioni»
(Le botteghe color cannella, 1933)

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