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Redazione
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• 8 Settembre 2022 – Redazione

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

Di Alberto Cantoni, Linkiesta

Per anni, l’industria dei combustibili fossili ha investito quantità enormi di denaro per diffondere in tutto il mondo disinformazione sul tema del cambiamento climatico, con l’obiettivo di polarizzare l’opinione pubblica e impedire una reale mobilitazione sociale contro il riscaldamento globale.

Nonostante l’ultimo decennio sia stato caratterizzato da una forte tendenza a scuotere le coscienze (individuali e politiche) e dalla diffusione di una maggiore consapevolezza riguardo a questi temi, le fake news e la cattiva informazione generate dal comparto mediatico continuano a rappresentare una minaccia concreta per l’azione sul clima. Uno dei maggiori incubatori di questo problema – come ormai noto – è il mondo dei social.

Lo dimostrano gli ultimi rapporti sul clima delle Nazioni Unite, ma l’accusa ha recentemente preso forma anche nel documento “In the Dark: How Social Media Companies’ Climate Disinformation Problem is Hidden from the Public”, pubblicato da Greenpeace, Aavaz e Friends of the Earth.

Il report mette in luce la grave mancanza di trasparenza da parte delle aziende proprietarie delle principali piattaforme, con molte realtà che nascondono gran parte dei dati relativi alla diffusione della disinformazione (o della misinformazione) climatica.

Nello specifico, Facebook, TikTok e Twitter risultano notevolmente in ritardo nei loro sforzi per affrontare il problema. Ad aver compiuto passi avanti in questa direzione sono invece Pinterest e YouTube: nella classifica stilata dalle tre organizzazioni ambientaliste – basata su un sistema di domande di valutazione a 27 punti per analizzare le politiche di dis/misinformazione climatica -, la piattaforma di condivisione delle immagini e il servizio di video sharing di Google vincono il premio al virtuosismo (più per assenza di competitor che per meriti propri, dato che entrambe raggiungono a malapena un punteggio sufficiente).

Fonte: “In the Dark: How Social Media Companies’ Climate Disinformation Problem is Hidden from the Public”

Tra i fattori presi in considerazione per classifica ci sono: il funzionamento del meccanismo di fact-checking utilizzato dal social media, la presenza o meno di un’informativa sulle conseguenze per i contenuti che violano i termini di servizio, l’esistenza di definizioni chiare di «disinformazione climatica», l’affidabilità dell’algoritmo nel penalizzare i post disinformativi (anche in termini di sponsorizzazione e monetizzazione) e la possibilità per gli utenti di segnalare in maniera efficace questa tipologia di contenuti.

Quella presa in analisi nel report è una preoccupazione tutt’altro che secondaria. Alcuni studi hanno dimostrato come ormai circa la metà degli adulti (nel caso statunitense il 53%) si informi principalmente attraverso le piattaforme social (più di un terzo con Facebook, sempre stando al campione Usa). Ciononostante, le aziende che si muovono in questo mercato non hanno adottato le misure necessarie a combattere le falsità propugnate dai complottisti e da chi da tutto ciò ottiene beneficio. Viceversa, hanno permesso che queste bugie sul clima inquinassero le bacheche e i feed degli utenti per anni.

Nel contesto dell’Unione europea, tuttavia, si sta assistendo a un’inversione di rotta: la tendenza – in linea con la crescente regolamentazione delle Big Tech – è di chiedere ai colossi di internet maggiore trasparenza sulle politiche e sulle pratiche in materia di contenuti pubblicati. Dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo, lo scorso 5 luglio è stato varato il Digital Service Act – il nuovo regolamento sui servizi digitali -, che prevede obblighi e una nuova cultura della prevenzione alla disinformazione (così come ai contenuti illegali).

La speranza è che la legge possa segnare un cambiamento di paradigma sotto il profilo della responsabilità delle aziende tecnologiche in materia di fake news, nello stesso modo in cui il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr, General Data Protection Regulation) ha cambiato gli standard per la protezione dei dati personali in Europa.

Del resto, la disinformazione climatica serpeggia tra i meandri della rete e continua a essere un problema notevolmente sottovalutato. Uno degli ultimi casi eclatanti è stato quello della World Climate Declaration, una petizione firmata da «oltre 1.100 scienziati e professionisti preoccupati che il dibattito sul cambiamento climatico si sia allontanato dall’evidenza empirica e sia diventato troppo politico». L’istanza starebbe «coraggiosamente rompendo con il pericoloso pensiero generale per dichiarare che non c’è, nei fatti, nessuna emergenza climatica».

La dichiarazione, il cui primo firmatario è un fisico premio Nobel di nome Ivar Giaever (93 anni), è stata condivisa decine di migliaia di volte sui social nel mese di agosto. Persino da un senatore del Partito Liberale australiano, Alex Antic, che in un post su Facebook (con oltre 8mila like e quasi 3mila condivisioni) ha affermato come la dichiarazione assesti «un ulteriore colpo» ai «fanatici verdi del mondo accademico».

Tuttavia, si tratta solo dell’ennesima iterazione di una più ampia campagna di disinformazione che l’organizzazione dietro alla petizione porta avanti da tempo. Stiamo parlando della Climate Intelligence Foundation (Clintel), che da anni propina una serie di argomenti largamente screditati dalla comunità scientifica di tutto il mondo. Come dimostrato da Inside Climate News, la stragrande maggioranza dei firmatari della dichiarazione non ha alcuna esperienza nel campo climatico e l’organizzazione ha legami ben documentati con le lobby del petrolio e dei combustibili fossili.

Purtroppo, anche l’Italia è coinvolta. Sulla scia della World Climate Declaration, gli otto firmatari della Petizione Italiana sul clima – il documento «anti catastrofista» in linea con le posizioni di Giaever che era stato inviato alle massime autorità politiche nel 2019 – hanno recentemente invitato i promotori di Un voto per il clima (una lettera aperta che su Change.org ha raccolto quasi 200mila adesioni e che spinge affinché al centro dei programmi politici in vista delle elezioni ci sia la crisi climatica) a un dibattito pubblico in una sede istituzionale, accademica o politica. Inutile dire che anche in questo caso la notizia è rapidamente circolata sui social come fuorviante testimonianza anti-emergenziale, senza neppure considerare il numero irrisorio dei professionisti coinvolti.

Nell’immagine: “Non c’è nessuna emergenza climatica”, una delle affermazioni della World Climate Declaration diffuse acriticamente dai “social media”






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