Cronaca, dacci il nostro déjà-vu quotidiano
Mentre a Berna si discute se un “no” vale più di un “sì”, la cronaca ci regala un solo pensiero: quanti déjà-vu in ambito di abusi sessuali
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Mentre a Berna si discute se un “no” vale più di un “sì”, la cronaca ci regala un solo pensiero: quanti déjà-vu in ambito di abusi sessuali
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Mentre a Berna si discute se un “no” vale più di un “sì”, la cronaca ci regala un solo pensiero: quanti déjà-vu in ambito di abusi sessuali
Immaginate un ragazzo che una domenica mattina passeggia in un quartiere residenziale: all’improvviso una donna sbuca dal nulla e lo assale, e quando lui cerca di ribellarsi all’imminente attacco sessuale, viene minacciato di morte. Oppure, immaginate la direttrice di una famosa azienda che indugia in atti di autoerotismo seduta alla scrivania del proprio ufficio senza curarsi di nasconderli agli occhi del sottoposto. E quando arriva il giorno in cui il sottoposto si ribella segnalando il caso a terzi, l’unica soluzione presa in considerazione è quella della rimozione (del sottoposto, ovviamente). Oppure, immaginate una docente che con la scusa di praticare educazione emotiva finisce per appartarsi con il proprio giovanissimo allievo in macchina, sbandierando poi, una volta pizzicata, il proprio coinvolgimento sentimentale, che quegli amplessi dovrebbe giustificare. Oppure – ma qui la finiamo, a tal punto è inverosimile questo esercizio – un’operatrice sociale che sistematicamente mette le mani addosso a giovani praticanti con un’insistenza tale da indurre gli attenzionati a nascondersi, rifugiandosi in bagno.
Una serie di esempi apparentemente assurdi, questa, ma basterebbe cambiare il genere dei protagonisti, per ricevere un fedele spaccato della realtà della cronaca recente dei nostri quotidiani, cantonali e nazionali: l’operatrice sociale era un operatore, la docente un docente, la direttrice un direttore, la minacciosa assalitrice anonima un assalitore. E le vittime sono bambine, donne e ragazze, esseri umani accomunati in primis dalla propria appartenenza biologica, in seconda battuta dal fatto di dovere subire impulsi e gesti rivoltanti non richiesti e, nella peggiore delle ipotesi, dal dovere convivere con il ricordo di eventi orrendi, capaci di cambiare per sempre la traiettoria esistenziale delle vittime, zavorrandola di dolore, disgusto e senso di colpa.
Tanto è triste il déjà-vu scatenato da ogni racconto (si somigliano tutti, nella loro unicità) di abuso sessuale, quanto sono penose, sempre uguali a sé stesse, le giustificazioni – sì, perché non mancano mai – che accampano colpevoli e informati sui fatti al momento della resa dei conti, cioè i processi o le pubbliche scuse. Un déjà-vu che si esprime in una eterna litania di “non avrei mai creduto”, “non era colpa mia”, “non mi ero accorto”, “non so cosa mi sia preso in quel momento”, “sono consapevole del danno arrecato”, “mi dispiace” da parte di uomini (chiamiamoli così per non creare confusioni, ma teniamo presente che quelli veri, di uomini, sul banco degli imputati in tribunale o sulla stampa non ci finiranno giustamente mai) di colpo minuscoli, ovviamente pentiti, spesso sorpresi, a volte anche indignati per le accuse loro mosse.
D’altra parte, come stupirsi, considerando che dalla loro, perpetratori e informati dei fatti, hanno nientemeno che il Codice penale svizzero, ossia le regole di una nazione che per “stupro” intende una sola e unica cosa, la penetrazione vaginale di un pene umano? Già, perché tutto il resto è considerato semmai come coazione, secondo inquietanti graduatorie di gravità di ogni abuso sessuale denunciato (e sono pochi, si parla di 1 caso su 10 che viene a galla), che alla fine, in virtù di una serie di attenuanti e prescrizioni, porta quasi sempre al risultato di punire troppo blandamente il perpetratore, certamente in modo insufficiente per le vittime e la società.
Nel 2013 il Consigliere nazionale liberale Hugues Hiltpold presentò al Consiglio federale un’interpellanza in cui chiedeva una revisione del Codice penale, ricevendone una risposta a dir poco sconcertante (e parliamo di nemmeno dieci anni or sono): ” da tempo lo stupro corrispondente alla violenza carnale è un reato che può essere commesso soltanto su una donna(…) e questo in un contesto normativo che si rifiuta di riunire i reati di ‘coazione sessuale’ e ‘violenza carnale’ all’interno di un unico articolo di legge”. Insomma, lo Stato decide non solo quale debba essere la percezione del reato da parte della vittima, ma si lancia, come già detto, anche in una vergognosa graduatoria di gravità.
Ora il Parlamento sarà chiamato a esprimersi sull’introduzione del principio del consenso nel Codice penale: “solo un sì significa sì”. In altre parole, per potere procedere a un’interazione sessuale di qualsivoglia tipo, è necessario un consenso preliminare. Come in fondo sarebbe giusto, e come d’altronde siamo chiamati a fare prima di un intervento chirurgico, nell’ambito delle ricerche accademiche, in nome della tutela della privacy e via dicendo.
Il Consiglio degli Stati però, coadiuvato da quello federale, preferirebbe un’altra soluzione, ossia quella del “no è no”, a loro detta più trasparente. La persona in procinto di essere aggredita dovrebbe in altre parole semplicemente pronunciare un “no” forte e chiaro, altrimenti, e siamo alle solite, sotto sotto, chissà, ci potrebbe anche essere un briciolo di consenso. Eppure, anche se proprio quei “no” non si sono rivelati a oggi efficaci, perché non gridati a sufficienza, perché non ascoltati, perché di scarsa rilevanza penale, saranno con tutta probabilità preferiti alla formula richiesta da collettivi femminili, Amnesty International e moltissime cittadine, giovani e meno giovani: “solo sì significa sì”.
Per una volta saremmo, in Svizzera, allineati a paesi come quelli scandinavi o la Spagna. Il condizionale è obbligatorio, e lo sottolineiamo, perché la pratica del déjà-vu ci spinge a moderare i nostri desideri di una società più equa, mentre ciò che abbiamo visto e letto in questi anni ci costringe a un bagno di realtà: siamo nel 2022, sì, in una società democratica, sì, che però ancora nega alle sue cittadine e ai suoi cittadini alcuni diritti, tra cui quello di potere essere vittime.
Un déjà-vu che sa di antico, di umiliazione e di smacco. E che no, non vogliamo più. Ma questo è l’unico “no” che siamo disposte/i a pronunciare. Per tutto il resto vorremmo essere libere e liberi di dire sì, ma solo se e quando sta bene a noi.
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