La battaglia persa di Svetlana Aleksievič
Pubblicato in italiano dalla casa editrice Adelphi il discorso della scrittrice bielorussa in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 2015
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Pubblicato in italiano dalla casa editrice Adelphi il discorso della scrittrice bielorussa in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 2015
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Pubblicato in italiano dalla casa editrice Adelphi il discorso della scrittrice bielorussa in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura nel 2015
È un testo duro, senza mezzi termini, doloroso, straziante, quello di Svetlana Aleksievič, letto nel giorno della cerimonia ufficiale che le assegnò il Premio Nobel per la Letteratura 2015. A pochi giorni dal recente Nobel assegnato ad un’altra scrittrice, Annie Ernaux, francese, dalla produzione fortemente contrassegnata dall’autobiografismo, e in un momento come quello che ci vede, oggi, costantemente confrontati con le atrocità della guerra in Ucraina, ricordarci di quanto Svetlana Aleksievič ha sempre cercato di vivere pienamente e provare a raccontare nei suoi libri e nei suoi reportages, ci induce una volta di più ad interrogarci sulla tragedia della guerra, nelle terre martoriate dell’(ex-)impero comunista sovietico, così come in ogni luogo del mondo in cui si muoia insensatamente, fra città distrutte, campagne saccheggiate, paesi svuotati di uomini, con donne e bambini costretti alla quotidiana battaglia per la sopravvivenza. Una battaglia persa, come dice il titolo del volumetto, come forse è persa, di principio e per forza, quella di una letteratura che voglia comunque provare a descrivere il dramma di un’umanità che si annienta.
Bielorussa, settantaquattrenne, giornalista e scrittrice, Svetlana Aleksievič (di cui abbiamo già proposto in questa sede un ritratto di Simona Sala) ci consegna con il suo discorso, pubblicato recentemente da Adelphi, una testimonianza di grande forza, di una cronista militante, impregnata di storie e di Storia, quella lacerata del suo Paese, con una voce “femminile” che sa esprimere l’ineffabile coesistenza di atrocità e di amore come una componente che sta dentro l’esperienza biografica di ciascuno. (e.l.)
Proponiamo qui due brevi estratti del testo.
Non sono sola, su questo palco… Ho intorno le voci, le centinaia di voci che sono sempre con me. Da quando ero piccola. E abitavo in campagna. A noi bambini piaceva molto giocare per strada, ma la sera erano le panche fuori dalle case (dalle chaty, come si dice da noi), quelle su cui si davano appuntamento le donne ormai stanche, ad attirarci come una calamita. Quelle donne erano tutte senza marito, senza padre, senza fratelli. A guerra finita non ricordo uomini nel mio paesino: tra il fronte e la resistenza, la seconda guerra mondiale si è portata via un bielorusso su quattro. Il nostro mondo di bambini del dopoguerra era un mondo di donne. E mi è rimasto soprattutto impresso che quelle donne parlavano d’amore, non di morte. Raccontavano di quando avevano salutato per l’ultima volta coloro che amavano, di come li avessero aspettati e li aspettassero ancora. Gli anni passavano, ma loro non smettevano di aspettarli: “Senza braccia, senza gambe, basta che torni: me lo porto in spalla”. Senza braccia… senza gambe… Credo di averlo saputo fin da bambina, cos’è l’amore.
Ho tre case: la mia terra bielorussa, che è la patria di mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la patria di mia madre e dove sono nata; e la grande cultura russa, senza la quale non riesco ad immaginarmi. Ho care tutte e tre. Ma è difficile parlare d’amore, di questi tempi.
Svetlana Aleksievič, “Una battaglia persa”, Adelphi, pp. 11-12 e p.42
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