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Yurii Colombo
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• 22 Marzo 2023 – Yurii Colombo
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L’aereo di Xi Jinping non aveva ancora toccato il suolo di Mosca che il capo di Stato cinese aveva già eletto Putin alla presidenza russa per un nuovo mandato fino al 2030. Tanta fretta non era principalmente dovuta tanto al voler metter in chiaro da parte della leadership cinese di considerare carta straccia il mandato internazionale di cattura dell’Aja quanto un segnale alla nomenklatura russa ma anche a quella delle circostanti repubbliche dell’ex-URSS: gli affari e le alleanze li faremo con Putin e nessun altro.

La debolezza e la forza di Putin sta tutta qui: ottenere da Pechino un rinnovo del suo mandato ma alle sue condizioni. Nel corso dei tre giorni i suoi assistenti hanno sciorinato alla stampa tutti i successi della collaborazione Mosca-Pechino: l’anno scorso la Russia ha aumentato le esportazioni di petrolio verso la Cina di quasi il 10%, di carbone del 21% e di gas di 1,5 volte, diventando per la prima volta il suo principale fornitore. La Cina ha risposto inviando in Russia prodotti elettronici e macchinari per un valore di 4,8 miliardi di dollari, sostituendo le aziende occidentali che se ne sono andate. L’interscambio è anch’esso aumentato significativamente a 185 miliardi di dollari annui (ma per avere dei punti di riferimento quello con i paesi occidentali supera i 1000 miliardi all’anno). Putin ha pure annunciato che la possibilità di allargare l’uso della divisa cinese anche a paesi terzi. Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia del Cremlino quello della de-dollarizzazione dell’economia mondiale che ha aveva trovato tiepidi sostenitori anche alle riunioni dei Brics. Qualche mese fa, ai tempi dell’imposizione all’Europa dell’acquisto di gas e petrolio in rubli, il leader del Cremlino aveva sperato persino di far diventare la sua moneta un pivot degli scambi internazionali ma appena l’economia russa è stata costretta a tornare ad importare, il rublo è passato in tre mesi da 51 a 83 rubli per euro, confermando la sua volatilità sui mercati valutari.

La realtà oggi è sotto gli occhi di tutti: la Russia lungi dal diventare “sovrana” come aveva baluginato lo Zar sta diventando un vassallo del Dragone, il quale sfrutterà le difficoltà russe per uno scambio ineguale sempre più accentuato. Un funzionario russo che ha voluto restare anonimo ha sintetizzato così lo stato dell’arte: “La logica degli eventi impone che stiamo diventando una colonia di risorse della Cina. I nostri server saranno di Huawei. La Cina riceverà il gas attraverso la “Siberia Sila”. Entro la fine del 2023, lo yuan sarà la nostra valuta principale negli scambi commerciali”.

Ciò non può far dormire sonni tranquilli all’“Occidente collettivo” e in primo luogo agli Stati Uniti d’America.

La formazione di un’asse strategico tra Mosca e Pechino non è cosa fatta ma ci sono tutte le premesse perché possa realizzarsi nel prossimo futuro. In fondo ciò che ha detto Putin a margine degli incontri è vero: i rapporti russo-cinesi non erano stati così buoni neppure quando subito dopo la Rivoluzione del 1949 Stalin spediva a Mao macchinari industriali gratuitamente.

È in questo quadro che si inserisce la mediazione di pace cinese sull’Ucraina. Dietro i fumosi 12 punti proposti qualche settimana fa non c’è altro che un piano di cessate il fuoco che congeli le conquiste russe degli ultimi 14 mesi. Se da Kiev questa ipotesi fosse – come sembra inevitabile – rigettata in blocco, Xi allora potrebbe fare appello al “Sud del Mondo” per fare ulteriori pressioni su Zelensky. Un piano cinico ma intelligente che metterebbe a nudo anche le potenzialità di controffensiva ucraina della prossima primavera-estate, segnala il “Washington Post”.

Putin sta trasformando in qualche misura una posizione politica e finanziaria disastrosa in un punto di forza. Se a Biden non riuscirà quell’operazione di “divide et impera” che riuscì a Nixon con la diplomazia del ping-pong nei primi anni ’70, “l’internazionale dei totalitarismi” potrebbe diventare qualcosa più che un’ipotesi.






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