La macchina del caos o dell’ordine perfetto
Di algoritmi e IA che ci “aiutano” a non pensare, in nome di un presunto beneficio che diventa invece totale alienazione
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Di algoritmi e IA che ci “aiutano” a non pensare, in nome di un presunto beneficio che diventa invece totale alienazione
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Di algoritmi e IA che ci “aiutano” a non pensare, in nome di un presunto beneficio che diventa invece totale alienazione
Facciamo attenzione alle parole: assistente personale, cioè qualcosa che ci aiuta; quindi, che deve essere accolto a braccia aperte, a prescindere in quanto anticipa i bisogni umani dandoci cioè le risposte ancora prima di avere fatto le domande, ecco noi, questa, la chiamiamo alienazione, perché è la negazione totale del pensiero e della consapevolezza. E ancora: uno strumento che sa svolgere compiti che gli umani potrebbero non avere il tempo di compiere, come leggere: ma leggere non è la premessa necessaria per pensare, conoscere, ragionare? Se viene invece fatto dall’i.a. questo non ci priva appunto della capacità e della possibilità di pensare, cioè conoscere, cioè essere consapevoli della realtà?
Con l’IA non perdiamo inoltre tutta la creatività e l’immaginazione che dovrebbe essere invece legata a quell’uomo che si dice sapiens ma che se perde la sapienza, cioè leggere, conoscere e capire e poi decidere saggiamente, diventa invece sempre più macchinico/algoritmico cioè stupido e appunto alienato da se stesso ed espropriato di se stesso quanto più delega tutta la sua vita a una cosiddetta intelligenza artificiale, che standardizza per sua essenza il pensiero e i comportamenti sulla base di algoritmi oggi predittivi?
In realtà standardizzare e modellare/etero-normare e pianificare e prevedere i nostri comportamenti è pratica antica del capitalismo, a questo sono serviti e servono il management, il marketing/pubblicità e oggi le retoriche del digitale e dell’intelligenza artificiale, perché il sogno del capitalismo e della tecnologia è quello di evitarci quel tempo morto (morto perché non produce profitto privato per il capitale) che si chiama pensiero e riflessione.
Seconda notizia. Per l’ennesima volta, Mark Zuckerberg, padrone di Meta, è stato multato. Questa volta – e per la cifra record di 1,2 miliardi di euro – da parte dell’Autorità garante della privacy dell’Irlanda, che ha colpito Facebook per violazione delle legge europea sulla riservatezza dei dati. E per l’ennesima volta Zuckerberg ha fatto ricorso in appello ed ha promesso: non lo faccio più! In realtà è probabile, se non certo che violerà ancora le normative europee sul trattamento dei dati (e non solo quelle), che ci spierà sempre di più perché è vorace di dati e senza i nostri dati non fa profitti per sé, rivendendoli al miglior compratore sulla piazza.
E queste due notizie ci riportano nuovamente al tema del conflitto – sempre nuovo, ma sempre antico – tra libertà individuale (di cui la privacy è elemento fondativo) e capitalismo (e apparati tecnici) oggi diventato digitale/intelligenza artificiale; e tra democrazia e capitalisti/capitalismo ora appunto digitale. Sul primo punto, abbiamo una meritoria giustizia che cerca di arginare appunto la criminalità seriale e compulsiva delle oligarchie tecno-capitaliste, ma è sempre, ovviamente, un intervento ex post. Sulla seconda questione, torniamo a dire che non è ammissibile – e non dovrebbe essere tollerato in alcun modo , soprattutto se la tecnologia è sempre più pervasiva e invasiva – che l’innovazione/i.a. e le imprese private che la promuovono nel far west digitale che hanno imposto e che chiamano libero mercato (con la complicità di troppi governi, anche democratici), possano fare il bello e il cattivo tempo, a loro discrezione e senza chiedere il permesso alla democrazia, cioè a noi (demos) che siamo (dovremmo essere) il vero potere sovrano (crazia).
Non è cioè ammissibile che siano delle imprese private a governare il mondo e la nostra vita, noi solo dovendoci adattare a ciò che queste imprese hanno deciso per noi. Non si tratta di avere paura dell’innovazione – che comunque dovrebbe essere attuata secondo principi di responsabilità verso le future generazioni e di precauzione per i suoi effetti diretti o collaterali; si tratta di definire chi decide cosa e come. Perché se l’intelligenza artificiale è quella profetizzata da Bill Gates e realizzata da imprese private, allora siamo totalmente al di fuori, anzi contro ogni principio democratico e di libertà.
Forse ci può aiutare a comprendere questa realtà, La macchina del caos, libro di Max Fisher, giornalista del New York Times e appena pubblicato da Linkiesta Books. Dove Fisher racconta di “come le piattaforme social offerte da Facebook, da Twitter, da YouTube e dagli altri giganti della Silicon Valley, oltre ad aver regalato al mondo tutti quei benefici tanto sbandierati da Mark Zuckerberg e dagli altri profeti della rivoluzione tecnologica, abbiano anche devastato prima i nostri comportamenti privati e poi la vita pubblica di tutti i Paesi del mondo, democratici e non”. Le conseguenze “sono state però oscurate da un’ideologia – secondo cui più tempo passato online avrebbe creato anime più felici e libere – e da quel particolare tipo di capitalismo della Silicon Valley che consente che una sottocultura ingegneristica [apparentemente] anticonformista, impudente e quasi millenarista gestisca aziende che tengono avvinte le nostre menti”. E posto che “i colossi dei social media hanno pochi incentivi ad affrontare il costo umano dei loro imperi (un costo sostenuto da tutti gli altri, come nel caso di una città che si trovi a valle di una fabbrica che pompa fanghi tossici nelle acque che usano tutti)”, allora spetta a noi dirgli di smettere di inquinare la nostra mente.
Difficile farlo, perché il loro obiettivo sembra essere proprio quello di arrivare a una società totalmente automatizzata e organizzata matematicamente (e capitalisticamente) – cioè la loro non è quindi una macchina del caos, ma una macchina per la costruzione progressiva e pianificata di un ordine macchinico/algoritmico perfetto, ma quindi anti-democratico e totalmente illiberale. Difficile dirgli di smettere. A meno che noi si esca dall’infantile feticismo per la tecnologia e da una visione solo idilliaca delle macchine.
Nell’immagine: Matthew Day Jackson, The Way We Were (2010)
Memoria familiare di una festa che ha segnato il ritorno della democrazia nell’Italia del dopoguerra.
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