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Di Salvatore Maria Righi, L’Indipendente

Nella foto ricordo, ‘u pacchiuni ha un sorriso bonario e, come da soprannome, un bel faccione pieno. Alle spalle un mazzo di fiori recisi e lenzuola bianche appese ai muri, perché Giovanni Motisi “’u pacchiuni”, il grasso” nel dialetto siciliano, è proprio un fantasma. Aveva fatto mettere quei drappi alle pareti per renderle totalmente irriconoscibili, quando partecipò al compleanno della figlia in un villino di Palermo non lontano dal quartiere Uditore, dove è nato il primo gennaio 1959. Da allora, correva il 1998, nessuno l’ha più visto e ora che hanno preso il numero uno della lista, è proprio lui il secondo nome. Il pesce più grosso rimasto ancora libero, il latitante più pericoloso di Sicilia e probabilmente d’Italia. 

“Most wanted” da 25 anni, un quarto di secolo, ricercato dal 1999 anche in campo internazionale e segnalato da qualcuno in Francia, ad un certo punto, per l’amicizia con qualche boss siciliano esule da quelle parti. Dal 2016, l’Europol lo ha inserito tra i criminali più ricercati in Europa. Secondo Vincenzo Musacchio, criminologo forense e docente di strategie di lotta contro la criminalità organizzata al Riacs di Newark (Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies), oltre che amico e collaboratore di Antonino Caponnetto che guidò il pool antimafia con Falcone e Borsellino, potrebbe essere proprio lui a raccogliere l’eredità di Matteo Messina Denaro e diventare il nuovo boss dei boss.

Negli schedari del GIIRL, Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti più pericolosi, il suo fascicolo è in cima a tutti gli altri. Un curriculum di tutto rispetto, quello di Motisi che negli anni ’90 era un pezzo da novanta nella Palermo della guerra di mafia tra Corleonesi e il resto del mondo. Boss del mandamento di Pagliarelli che avrebbe tenuto in pugno fino a tempi molto recenti, secondo riscontri investigativi, dove ha preso il posto di Nino Rotolo, costretto ai domiciliari, ereditando il bastone del comando del clan dallo zio Matteo. 

Condannato nel 1998 per omicidio, tre anni dopo per associazione di stampo mafioso e nel 2002 per strage. Nel 1999, quando hanno perquisito la sua villa a Palermo, non lontana dal rifugio di Totò Riina e famiglia, hanno trovato dei “pizzini” scambiati con la moglie, Caterina Pecora, che riguardavano – evidentemente in codice – falegnami ed elettricisti impegnati in lavori nella loro abitazione. Secondo il pentito Calogero Ganci, Motisi faceva parte della “commissione” che ha discusso dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi ucciso con la moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta. Quel giorno, nel racconto dell’illustre collaboratore di giustizia, Giovanni Motisi era in compagnia di Antonino Madonia, Raffaele Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Giuseppe Giacomo Gambino, Pino Greco, Vincenzo Galatolo, Antonino Rotolo e Giuseppe Lucchese, un gotha di padrini e mafiosi di alto profilo.

Lui stesso è stato un killer di fama, il preferito da Totò Riina, secondo gli investigatori che poi lo hanno associato all’ala moderata di Cosa Nostra, quella guidata da Bernardo Provenzano. È stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del commissario Beppe Montana, il 28 luglio 1985. Quando Palermo era diventata una specie di Beirut italiana, con una mattanza quasi quotidiana per le strade e nei bar. I corleonesi che sono scesi dalle montagne e hanno sterminato a colpi di canne mozze tutto il gotha dell’onorata società, la nobiltà mafiosa di Palermo compresi figli, nipoti e familiari. Quasi 1000 morti in poco più di due anni, fino al 1983, metà di loro ammazzati senza pietà e gli altri spariti per sempre, dopo sequestri finiti con torture e corpi sciolti nell’acido o fatti comunque sparire.

Motisi era già un giovane e promettente sicario agli ordini dei corleonesi, quando il giovane commissario Montana ebbe l’intuizione che ha cambiato la lotta alla mafia da parte dello Stato. Quella cioè di creare un gruppo di investigatori che a tempo pieno e non solo per riempire fogli e scartoffie, si dedicassero a dare la caccia ai mafiosi latitanti e a piede libero. Per togliergli la terra sotto ai piedi e levarli dal contesto in cui, pur se nascosti e irreperibili, continuavano indisturbati i propri affari, dettavano legge e impartivano ordini ai propri sottoposti, all’esercito di soldati sparsi sul territorio.

La sezione “catturandi” che il commissario Montana ha costruito e guidato fino a quando non è stato crivellato di colpi, a spararli anche Giovanni Motisi, ha portato in carcere decine di mafiosi, scoprendo i loro covi e i loro arsenali. Montana ha lavorato al fianco di Ninni Cassarà, il vice questore massacrato qualche giorno dopo di lui (6 agosto 1985), e col pool di Falcone e Borsellino. Buona parte dei 475 imputati per il maxi processo all’Ucciardone furono catturati proprio da Montana e dai suoi uomini che hanno dato un grande contributo anche al famoso “rapporto dei 162”, una mappa minuziosa e accurata del potere mafioso aggiornato alla guerra che ha portato al trionfo dei corleonesi e alla presa di Palermo, cambiando gli assetti e la gerarchia di Cosa Nostra.

Nonostante questo, la “catturandi” di Montana era una squadra messa in piedi con pochissimi mezzi e ancora meno riscontri nella struttura di polizia che lo Stato utilizzava per combattere la criminalità organizzata. Montana e Cassarà guidavano un pugno di uomini che doveva inventarsi di tutto per infiltrarsi nel territorio e dare la caccia ai latitanti. Si facevano prestare le auto da amici o dalle fidanzate, perché quelle di servizio erano sfasciate o già conosciute. Facevano collette tra di loro per pagarsi l’affitto degli appartamenti nei quali effettuare appostamenti o indagini, trovavano il necessario in modo fortunoso, come un cannocchiale prestato da un ottico o una parrucca rimediata da un’amica. Andavano alle feste di paese per rimorchiare ragazze e attraverso di loro cercare di avere informazioni sul territorio e sui padrini a cui davano la caccia.

Le immagini dell’arresto di Matteo Messina Denaro e del suo fiancheggiatore, inseguito dai telefonini cellulari delle persone, in un via vai di mezzi e uomini degno di un’operazione di guerra, con ampio spiegamento di risorse e tecnologia, misurano in modo netto i 40 anni che sono passati dai pionieri della lotta alla mafia: la “catturandi” del commissario Montana, nella pneumatica assenza dello Stato alla voce mezzi e risorse, si inventava ogni giorno il proprio mestiere di segugi antimafia e per questo, proprio per questo, la mafia decise di toglierlo di mezzo. Lo fecero un giorno d’estate, alla vigilia delle sue ferie, quando era al mare a Porticello in compagnia della fidanzata, del fratello e di amici. Un commando di sicari lo affrontò armi in pugno mentre era impegnato a sistemare la propria barca e lo freddarono senza pietà, avevano già pronti tre piani per ucciderlo perché Beppe Montana doveva essere tolto di mezzo a qualsiasi costo: uno dei killer era proprio Giovanni Motisi. Un giovane e spietato killer mandato dalla cupola dei corleonesi, di cui era già un fidato braccio armato destinato poi a diventare un potente boss. E poi, da 25 anni, un fantasma. Il nuovo padrino di Palermo, forse.

Nell’immagine: Giovanni Motisi






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