La cattura dell’ultimo boss. Davvero ha vinto lo Stato?
La trentennale latitanza di Messina Denaro ci dice che non c’è stata solo la complicità di famigliari, sodali e postini della mafia
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La trentennale latitanza di Messina Denaro ci dice che non c’è stata solo la complicità di famigliari, sodali e postini della mafia
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La trentennale latitanza di Messina Denaro ci dice che non c’è stata solo la complicità di famigliari, sodali e postini della mafia
Ma davvero ha vinto lo Stato? Uno Stato tenuto in scacco per tre lunghi decenni? E che – lo dicono vari rapporti di magistratura, inquirenti, osservatori di vario genere – non è riuscito a impedire che una latitanza durata trent’anni del criminale designato come suo successore da Totò Riina (“con quelli che ho ucciso io, ci potrei fare un cimitero”, disse a un compare il neo-detenuto) si trasformasse anche nel tranquillo passaggio alla mafia imprenditoriale, dei colletti bianchi ma sporchissimi, della nuova generazione, delle cifre colossali spostate abilmente sullo scacchiere internazionale della finanza criminale?
Sembra inverosimile, e contro il semplice buon senso, affermare che un uomo che ha trascorso metà della sua vita da pericolosa ‘primula rossa’, abbia potuto vivere e gestire i mega-affari di ‘cosa nostra’ in relativa tranquillità, da “casa e bottega”, e che lo abbia potuto fare senza complicità. Non certo quella scontata di famigliari, sodali, volonterosi ‘postini’ delle sue volontà, concittadini omertosi che innaffiava con i quattrini della sua ‘generosità’, esattamente come un Escobar nutriva interi e poveri villaggi colombiani garantendo lavoro, consegnando prebende, distribuendo gocce dei suoi immensi guadagni al cerchio di chi lo doveva proteggere da sguardi indiscreti. Manovalanza in miseria, ricattabile, disponibile in abbondanza.
No, non può essere stato uno scudo in fin dei conti assai precario a favorire in modo decisivo “Mandrake” (soprannome datogli dai questuanti che lo adoravano) nei suoi tre decenni di presa per i fondelli dei tanti impegnati nella sua cattura. Si dice e si sospetta che – esattamente come per Riina e Provenzano – sia stata la malattia, un tumore forse all’ultimo stadio, quindi la necessità di rivolgersi regolarmente e per un intero anno al reparto oncologico di un ospedale del capoluogo siciliano, a consegnarlo finalmente alla giustizia: “Dover fare i conti con la salute è un fatto democratico”, suggerisce infatti il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido, da tre lustri impegnato a dargli la caccia. Certo possibile, come ultimo definitivo e salutare atto della vicenda.
Ma rimangono quei lunghi, lunghissimi trent’anni di attivissima clandestinità con cui dover fare i conti. Conti che certo non chiamano in causa agenti di polizia, carabinieri, reparti della cosiddetta ‘catturandi’, speciale sezione dei nuclei del Nos. Quelli la loro parte l’hanno fatta. No, l’incredibile irreperibilità del “mafioso più pericoloso e irreperibile del mondo” sarebbe un mistero senza risposta se non si guardasse anche altrove. Se non si guardasse più in alto. In potenti frange “infedeli” dell’apparato; in quella melma di complicità che ha operato nell’ombra; negli interessi di “servitori deviati dello Stato” che devono aver favorito non solo e non tanto l’ “eterna fuga” ma anche l’intreccio degli affari che la criminalità organizzata ha continuato ad alimentare sottotraccia, e alla faccia dei cittadini impauriti ma onesti; e, per la sua parte, pure nella politica, di qualunque colore, troppo assente quando si trattava invece di fare della lotta anti-mafia – che mortifica e uccide interi settori economici – un punto centrale del proprio programma: adesso è comodo intestarsi presunti meriti, affermare che il colpaccio è più di destra che di sinistra, dimenticare che Berlusconi aveva uno stalliere riconosciuto come esponente della mafia, a fianco un Dell’Utri finito dietro le sbarre per complicità con la criminalità organizzata siciliana, e che nelle ultime elezioni le carte nel centro destra sono state distribuite persino da un Cuffaro pure lui finito dietro le sbarre con la stessa accusa.
Tutto questo mentre, sintetizza il giornale finanziario “Sole 24 Ore”, in tre decenni Messina Denaro (nomen omen) ha contribuito in prima persona, dalla sua prigione più o meno dorata, a costruire “un impero che non conosce confini geografici in Italia e che si spinge oltreconfine, fino ai mercati delle piazze centro e sud americane, oltre che a quelle europee”. Comprensibile il sollievo di queste ore, gli applausi dei pochi cittadini palermitani scesi in strada, il lieto fine celebrato anche come omaggio alla memoria di Falcone e Borsellino. Ma trent’anni di latitanza sono lunghi, troppo lunghi. Davvero lo Stato deve proclamare e celebrare la sua vittoria? C’è invece chi ha suggerito che debba chiedere anche scusa.
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