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Redazione
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Giulia Tramontano diventa un avatar
• 8 Giugno 2023 – Redazione

Di Eva Elisabetta Zuccari, Today.it

Giulia Tramontano, trasformata in un avatar, che racconta la propria morte in prima persona. È l’apice della spettacolarizzazione del dolore che si tocca su TikTok in questi giorni, dopo l’omicidio della ragazza incinta uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello. Se infatti il delitto di Avetrana ha rappresentato per la televisione il culmine della cosiddetta “tv del dolore”, la storia di Senago si sta configurando come qualcosa di parallelo sulla piattaforma cinese. Oltre 200 milioni i contenuti prodotti sotto l’hashtag dell’assassinio (per darvi un termine di paragone, è lo stesso numero di contenuti che riguardano uno dei tiktoker più famosi): un’isteria collettiva che va di pari passo col processo mediatico, sollecitato più che mai dall’enorme empatia che sa sollevare una vicenda così straziante. Ma qui – rispetto alla tv – si fa peggio. Perché qui non c’è la mediazione dei giornalisti, che l’informazione la fanno per professione: qui l’informazione è fai da te. E, soprattutto, qui c’è un algoritmo che spinge implacabile sul voyeurismo, inaugurandone così un nuovo livello per la cronaca nera. Un livello in cui vale tutto: anche l’invito a farsi giustizia da soli.

Giulia avatar e i contenuti “fiction” su di lei

Nel contenuto più inquietante, si diceva, Giulia ritorna in vita attraverso una tecnica che sembra ricalcare il deepfake: “Sono Giulia Tramontano, mio marito mi ha dato fuoco e vorrei raccontarvi la mia storia”, esordisce la ragazza riprodotta in versione robotica, con una fisionomia che riprende quella reale, fatta di grandi occhi chiari e capelli lunghi biondi. “Ero una donna di 29 anni incinta di sette mesi, piena di speranze e sogni per il futuro, ma tutto è cambiato in un attimo”. Poi scende nei dettagli, sempre più horror. Dettagli che trovano quasi un milione e mezzo di visualizzazioni e oltre centomila like. Dettagli che appartengono a un profilo che, ormai da tempo, colleziona visualizzazioni proprio riportando in vita i morti, ovvero portando all’estremo la moda del “true crime” (che è il racconto della cronaca vera, tanto di moda di questi tempi).

Ma non è finita qui. Se Giulia robot è l’apice, nuove vette vengono raggiunte da un altro tipo di contenuti: contenuti fiction. Parliamo di contenuti che, romanzando il reale, costruiscono una mini sceneggiatura sui due protagonisti. In uno di questi, Alessandro chiede scusa a Giulia: “Scusa Giulia per aver tradito te e il piccolo Thiago e per aver messo incinta un’altra ragazza”, dice attraverso un virgolettato completamente inventato. E lei, attraverso un’altra dichiarazione altrettanto falsa e folle, risponde: “È troppo tardi per il perdono”. A questo punto parte la colonna sonora: Apologize degli OneRepublic. Sì perché qui non manca niente, né la musica, né gli stacchi di montaggio, né il crescendo di sensazionalismo. E neanche i like: 30mila, con mezzo milione di visualizzazioni. Sebbene infatti i video di questo tipo si contino sulle dita di una mano, quello che colpisce è l’imponente coinvolgimento che suscitano.

Sui social non girano informazioni, ma emozioni. Mai informarsi su TikTok e Facebook

Tutto il resto è un mix tra vero e verosimile, tra informazione e spettacolo. Tutto il resto sono persone comuni e creator che si improvvisano giornalisti, ovvero inventano profili di informazione che trovano il loro principio cardine nella cosiddetta “pornografia del dolore”. La tecnica è la stessa per tutti: rubare le immagini dai tg (dov’è il diritto d’autore?) e rielaborarle in video che siano il più possibile sensazionalistici, allo scopo di ottenere like: le clip riprendono infatti le immagini più forti, come la mamma di Giulia che piange, gli insulti dei vicini di casa ad Alessandro, lui che esce di casa con le lenzuola in mano. E, se la cronaca richiede un’etica, qui non esiste: qui ciò che conta è il numero di visualizzazioni. Se la cronaca richiede un linguaggio imparziale, qui avviene il contrario, perché è tutta una rincorsa all’enfasi nei termini: “La povera mamma del mostro”, “Giulia che è un bellissimo angelo”, “la creatura che aveva in grembo”, “le dichiarazioni choc”. Una sfilza di emoticon di cuori, di mani giunte, di angeli. I titoli sono urlati nel colore più sgargiante possibile, per attirare l’attenzione. Per ottenere views. Tutto inquina il dibattito scambiando l’emozione per informazione.

“È incivile, oltre che degrado professionale, l’esibizione di una continua indignazione morale che diventa spettacolo”, si leggeva sul Foglio domenica, col quotidiano che condannava l’abuso di cronaca nera fatta dalle tv e dai giornali indugianti nello scempio. E qui su TikTok vale lo stesso, da parte della gente comune. È davvero questa partecipazione al dolore? No, se la denuncia è scambiata col voyeurismo. Se l’empatia per eccesso patetico. Se l’alibi delle “sentite condoglianze alla famiglia” diventa la scusa per rimestare nel torbido. Parlare di quanto accaduto a Giulia è un dovere. Ma c’è differenza tra approfondire il livello della discussione, ovvero sviscerare e decostruire i retaggi della cultura patriarcale, e restare nella superficie del sensazionalismo. C’è differenza tra voglia di comprendere e morbosità compiaciuta. Tra tempo per capire e voracità. Ed è questa l’informazione a cui stiamo abituando i più giovani: secondo recenti studi, il 4% di loro nel mondo si informa tramite TikTok.

“Impagnatiello picchiato in carcere”. L’ex detenuto diventa una star

Ma del resto i social non sono fatti per far circolare informazioni, bensì per far girare stati d’animo, emozioni. Per generare reazioni che tengano l’utente incollato allo schermo: l’indignazione citata sopra, ma soprattutto la rabbia. Ed è qui che gli algoritmi – non solo quelli di TikTok – trovano terreno fertile. Nelle scorse ore, in particolare, si è diffusa nell’app l’equivoco per cui Alessandro Impagnatiello sarebbe stato picchiato in carcere da quindici detenuti. A prendersi l’incomodo di replicare, di fare chiarezza è stato un uomo che si è dichiarato ex detenuto di San Vittore oggi agli arresti domiciliari: “Purtroppo smentisco. Non lo metteranno mai nei comuni, anche se sarebbe stato giusto perché molti gli avrebbero fatto capire che schifo di persona è”. E ancora: “Mi sarebbe piaciuto essere ancora a San Vittore e che ce lo avessero buttato tra noi comuni. Avrebbe vissuto i trent’anni peggiori della sua vita, sempre che avesse vissuto trent’anni…”. Trentacinquemila i like. “Sei dolce”, gli risponde qualcuno. “Ammiro la tua sensibilità”, “Sei molto dolce, mi sono venute giù lacrime”. Questo accade appunto quando tutto diventa emozione, istinto, non resta più il ragionamento, non resta più lucidità.

Le manie di protagonismo, il nuovo turismo dell’orrore

C’è poi – infine – chi ne approfitta per prendersi la scena. Ovvero chi si prende l’incomodo di scrivere lettere alla vittima. E di collezionare così uno sproposito di like (una quantità di like enormemente più grande rispetto a quanti ne ottiene di solito). Ci sono creator donne che si piazzano la telecamera in faccia ed esordiscono con “Ciao Giulia, sono una mamma che ama il suo bambino, proprio come avresti potuto essere tu”. Ci sono avvocati che allargano la coda come pavoni: “Se difenderei Impagnatiello? Ora vi spiego come la penso”. “Se vi fa piacere condividete e sfogatevi”, si legge poi nelle didascalie. È la coralità di TikTok, che consente a tutti di diventare virali (a prescindere dal numero di follower): basta cavalcare il trend giusto. Più che una catena di solidarietà, è smania di protagonismo: è la violenza con cui le persone vogliono entrare nella narrazione, avvicinandosi al luogo della tragedia: sembra un’evoluzione del turismo dell’orrore, quello che ci portava a visitare i luoghi di Avetrana, a guardarli dal finestrino della macchina. Non a caso c’è anche chi si immortala davanti al cancello di casa di Impagnatiello e Giulia: “Spero che avrete giustizia, bellissimi angeli”, scrive. Quarantamila visualizzazioni.

Nell’immagine: l’avatar di Giulia Tramontano come appare su TikTok






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