Il Monte Verità – in realtà una collina alta poco più di 300 m s/m sopra Ascona – è uno di quei luoghi la cui fama si spinge ben oltre i suoi confini naturali. Su quelle pendici si incontrano e si intrecciano vite, leggende, ideali, che ne hanno fatto un mito, soprattutto oltralpe, trasformando quel microcosmo energetico in un avamposto del mezzogiorno, di un Sud anch’esso idealizzato, avvolto da luoghi comuni e
clichés. Agli albori del XX° secolo, proprio il Canton Ticino diventa terra promessa di una nuova ondata del
Drang nach Süden, a sua volta, scaturito dallo
Sturm und Drang della seconda metà del Settecento, di cui è la declinazione più acutamente romantica.
Monte Verità, dunque, luogo immaginario, idealizzato, esotico, anche se pienamente radicato al centro del Vecchio Continente, osservato con distacco e crescenti perplessità dagli autoctoni, soprattutto da quanti vivono di agricoltura tra difficoltà materiali e dignitosa povertà, lontani da palme posticce e suoni mediterranei di chitarra e mandolino. Le donne e gli uomini giunti dal Nord vennero chiamati “Balabiott”. “Suscitavano grande scalpore, tanto più che prendevano il sole nudi, incuranti di chi gli stava attorno; molti contadini presentarono proteste formali e così, uno dopo l’altro, furono costretti ad andarsene” (p. 39). Dove loro avevano seminato patate e ortaggi e coltivato la vite, i Balabiott semineranno utopie.
Attorno a quel “monte”, che si era sempre chiamato Monescia, si forma, nei primissimi anni del Novecento, una comunità composita di visitatori e residenti che proprio lì si raccolgono con l’obiettivo condiviso di vivere diversamente rispetto a quanto facevano nei loro Paesi d’origine: in maniera più sana, libera, alla ricerca di un più autentico equilibrio tra corpo e psiche, tra benessere fisico e spirituale, tra princìpi morali, libertà sessuale, parità nella diversità di genere, in una visione anticapitalista che ognuno interpreta a modo suo, che si ispira ad un socialismo ideale e anarchico, d’impronta bakuniniana, in cui convive, sullo sfondo, l’aspirazione ad una purezza pangermanico-wagneriana: la vita come opera d’arte. In un volantino, ideato per pubblicizzare quell’avventura, si legge: “Qui ognuno può liberamente mostrarsi come è realmente”. La rocca di Valchiria e il prato di Parsifal sono alcune delle – diremmo oggi – installazioni rimaste a testimoniare quella tentata rivoluzione.
Ida Hofmann
Risale al 1899 la decisione – presa da uno sparuto gruppo di pionieri formato, tra gli altri, da Henri Oedenkoven, rampollo di una famiglia di industriali fiamminghi, dalla sua compagna Ida Hofmann, pianista e scrittrice nata in Sassonia (con cui Henri vive, nella Casa Anatta, in una relazione libera, per nulla apprezzata dai genitori di lui quando vengono in visita in Ticino); da Karl Gräser, ufficiale dell’Esercito austriaco e da suo fratello Gustavo; dall’insegnante berlinese Lotte Hattemer – di individuare il luogo adatto per fondare una Comunità cooperativa vegetariana e nudista. Quell’esperienza si concluderà, di fatto, nel 1920, quando Oedenkoven, la nuova moglie e la stessa Hofmann si trasferiscono in Brasile per creare una nuova colonia, chiamata Monte Sol.
Al Monte Verità sono stati dedicati studi, rassegne, documentari e film. Fondamentale fu il ruolo del critico Harald Szeemann, che diede il la con la storica mostra del 1978 (poi approdata anche a Zurigo, Berlino, Vienna e Monaco di Baviera) e con il fondamentale volume a più voci Monte Verità. Le mammelle della verità (Milano, Electa, e Locarno, Armando Dadò, 1978; ripubblicato dallo stesso Dadò nel 2015) .
Alle molte testimonianze in lingua italiana su quell’esperienza irripetibile e su quel luogo (da cui, negli anni, sono transitati, con maggiore o minore coinvolgimento, Herman Hesse, Isadora Duncan, Marianne von Werefkin, Alexej von Jawlensky, Arthur Segal, Hans Arp) si aggiunge adesso quella fondamentale della co-fondatrice, Ida Hofmann. Di lei le Edizioni Casagrande di Bellinzona pubblicano infatti in questi giorni Monte Verità. Verità senza poesia, pp. 138, CHF e Euro 20. La prefazione è affidata a Edgardo Franzosini, autore del romanzo biografico Sul Monte Verità, Milano, Il Saggiatore, 2014 e 2021. Un altro testo, L’eredità di Ida, è firmato da Nicoletta Mongini, direttrice Cultura della Fondazione Monte Verità. Questo prezioso memorandum, pubblicato per la prima volta a Berlino nel 1906 con il titolo Wahrheit ohne Dichtung, esce finalmente anche tradotta in italiano, da Elisa Leonzio, corredata da una ventina di preziose immagini d’epoca del Fondo Szeemann, messe a disposizione dalla Fondazione Monte Verità.
Il testo della Hofmann occupa in realtà non più di 80 pagine, è narrato in parte al presente e in parte al passato, ma – avverte Leonzio – senza un rispetto stretto della cronologia. Non mancano, già nella versione tedesca, alcuni brani in italiano, lingua che l’autrice conosce sommariamente e che scrive seguendone il suono. Subito colei che è tra le artefici di quell’esperienza culturale e comunitaria, ne ripercorre le ragioni e le premesse iniziali: “Desidero raccontare la vita di alcune persone che, pur essendo cresciute in un tessuto sociale basato per lo più su egoismo e lusso, su apparenza e inganni, sono approdate attraverso malattie del corpo o dell’anima a una nuova consapevolezza e hanno compiuto una svolta per dare alla loro vita un orientamento più sano e naturale. Verità e libertà nel pensiero e nell’azione dovrebbero accompagnare d’ora in avanti ogni loro aspirazione come le più preziose stelle polari” (p. 27).
Poco dopo, ricordando il suo compagno Oedenkoven, precisa ulteriormente gli intenti di quella loro iniziativa, ancora pienamente in atto: “Figlio di un magnate dell’industria, era stato risucchiato nel vortice degli agi a disposizione dei capitalisti e da loro ritenuti indispensabili, ma essendo dotato al contempo di uno straordinario spirito di osservazione e di idealismo imparò ben presto a cogliere, dietro le gioie apparenti dell’élite, cittadina e non solo, la sofferenza tangibile che essa causa in tutte le classi sociali. Una malattia quasi mortale lo portò sulla via purificatrice del vegetarianismo, e la dottrina darwiniana lo avvicinò al frugivorismo; così la natura eternamente fertile che fa germogliare senza sosta fiori magnifici dai pantani e dal fango e mai si stanca di indicare al male sempre nuove vie verso il bene, parve aver piantato il seme di una nuova vita anche in un terreno così malsano” (pp. 27-28).
Nel racconto-testimonianza il lettore incontra anche alcune figure ticinesi: per esempio, il commissario Rusca della Polizia di Locarno “che ci fece visita con due membri della sua famiglia; il suo sforzo di passare inosservato, soprattutto nell’abbigliamento, faceva il paio con la simpatia che dimostrava nei confronti della nostra impresa” (p. 62). O il pittore luganese Fausto Agnelli (1879-1944), che l’autrice conosce in Vallemaggia (“artista geniale e molto promettente che ci mostrò i suoi dipinti paesaggistici alla maniera di Segantini; non aveva maestri, dipingeva sulla spinta della sua osservazione personale della natura” (p. 60).
Il libro ci permette anche di seguire alcune trasferte della Hofmann e di Oedenkoven, che li portano a Bayreuth (dove assistono alla rappresentazione del Parsifal e di Tannhäuser), a Monaco di Baviera, sul lago di Costanza e a Parigi. Della capitale francese Hofmann descrive “tutta la futilità della vita sociale. Le abitudini lussuriose e antigeniche dell’alta società ricordavano le descrizioni della decadenza dell’impero romano (…). I proprietari di solito rimangono a letto fino alle undici o a mezzogiorno (…) e soltanto verso l’ora del déjeuner qualcuno con il viso smorto si presenta in una mise comoda o perfino trascurata. Le conversazioni a tavola ruotano sui possibili svaghi della giornata e consistono preferibilmente di osceni doppi sensi o di lamentele sui servitori, i quali, in attesa del minimo cenno da parte dei padroni, restano accanto alla tavola con una solerzia da schiavi” (p.70).
Questa sorta di autobiografia della Hofmann getta nuova luce anche sulle divergenze d’opinione che progressivamente intaccano la coesione della Comunità, che si divide proprio sui princìpi del diritto, della proprietà, del rispetto di una serie di regole e di un modello organizzativo che i due co-fondatori ritengono irrinunciabili per il prosperare della Comunità stessa.
Insomma, un viaggio appassionante tra modelli e ideali diversi di convivenza e di società che, da sempre, periodicamente si riaffacciano, per poi venir messi da parte e di nuovo reclamati a gran voce nell’ininterrotto e ondeggiante transitare dei tempi.
Nata nel 1864, la Hofmann morirà a Saõ Paolo del Brasile il 12 luglio 1926, 20 anni dopo aver scritto questo libro: la notizia impiegherà quasi tre mesi per giungere fino ad Ascona: viene infatti pubblicata solo il 15 settembre dal quotidiano Die Südschweiz, nome assunto, tra il 1921 e il 1987, dall’odierna Tessiner Zeitung.
Ulteriori informazioni
Opere sul Monte Verità
Il film di Stefan Jäger “Monte Verità – L’ebbrezza della libertà” su Play Suisse
- Il volume sarà presentato al pubblico mercoledì 25 ottobre alle 20.30 presso il Monte Verità. Interverranno Edgardo Franzosini e Nicoletta Mongini; con letture di Sara Cericola
Nell’immagine: Henri Oedenkoven e Ida Hofmann nel 1903